storia di un ragazzo troppo bravo a sciare


Lo scorso gennaio, a ridosso dell’anniversario di Nikolajewka, mi sono trovata a ripensare alla storia del soldato Alessio Cirillo Martinelli.
Fratello di mio nonno, il suo nome compare spesso nei racconti di famiglia, sempre avvolto da un fazzoletto di amarezza. Non avevo mai approfondito i dettagli, sapevo solo che era un ragazzo diligente e sportivo e che l’inverno russo del 1943 lo aveva inghiottito, insieme a moltissimi altri.
Ricordo che nel 1999 giunse a mio nonno un documento in cui, con poche righe asciutte, si riferiva l’accertamento di morte del soldato Martinelli Alessio Cirillo in data 7 febbraio 1943, presso il
campo di prigionia n. 56 Uciostoje, nella regione di Tambov, per cause sconosciute.
Mio nonno sbatté il foglio sul tavolo e non disse più nulla.
Morì nel 2008, e mai una volta gli domandai qualcosa sulla guerra, sul fratello, sulle sue disavventure. E dire che era un chiacchierone. Non con me, a quanto pare.


Per fortuna, mio padre era molto più in confidenza e meno in soggezione; nel corso degli anni ha
raccolto molti aneddoti e ricordi legati a quello zio che non aveva mai conosciuto. Sapevo che aveva una foto, gliela chiesi, e mi appuntai diligentemente le cose che sapeva, mettendo ordine nella
mia personale e confusa idea di Campagna di Russia.

Cercai di ricostruire la storia triste di un ragazzo che amava sciare, e i motivi che lo spinsero ad arruolarsi in una missione disgraziata, lasciandoci le penne.
Come, quando e soprattutto perché sono domande a cui ho, forse, trovato risposta.


La casa in cui nacquero mio nonno e Alessio era grande e in muratura. Fu costruita da tre fratelli, e in tre parti uguali spartita: era la casa dei Martinelli “Plat”, a Pecè di Pedenosso; nel giro di quarant’anni, si riempì per poi svuotarsi di vita, come spesso accade.
Tra il 1914 e il 1918, nei tre appartamenti della casa nacquero parecchi bambini: mio nonno Piero, nato nel 1914, lo stesso giorno in cui l’arciduca austriaco fu assassinato; suo fratello Alessio Cirillo nel luglio
del 1916, il cugino Domenico, uno dei numerosi figli di Costante, nel 1915, e Massimo, figlio di Giuseppe, nel 1918.
A leggere ora gli anni di nascita di questi bambini, si può già indovinare il loro destino. Cresciuti tra le montagne dell’Alta Valle, tra mucche da curare e patate da coltivare, verso la metà degli anni Trenta fecero la visita militare e via, tutti arruolati nell’esercito, tutti alpini.


Sin da giovanissimo Alessio si distinse come atleta: capelli nerissimi sulla fronte bassa, sguardo deciso e gambe robuste, si muoveva agile sugli sci. Vinse qualche gara, le medaglie al collo lo rendevano gagliardo e orgoglioso. Nel 1937 venne avviato nel Battaglione Duca degli Abruzzi,
presso la prestigiosa Scuola Centrale Alpinismo ad Aosta, dove rimase fino all’estate del 1938. Lì ricevette un addestramento specifico per imparare a muoversi e a combattere in alta quota e in situazioni estreme.


Dopo il congedo visse un anno in relativa tranquillità, di nuovo con il fratello e i cugini, di nuovo a Pedenosso, tutti insieme, come nel periodo dell’adolescenza. Di nuovo le mucche da curare, i prati da sfalciare, il contrabbando, la caccia, la fatica di stare in un mondo che velocemente si precipitava in guerra.
Mio nonno era inquieto, aveva fatto anche lui il militare, la sua carriera non era stata certo fulgida come quella del fratello. Piero non amava le armi, se non quelle che gli occorrevano per cacciare.
Domenico e Massimo erano forse più rassegnati, consapevoli che sarebbe stato difficile sfuggire all’appello delle armi: doveva essere nell’aria, come un cattivo odore. E infatti.


Alessio fu richiamato alla fine di agosto del 1939, appena finito di tagliare il fieno a Fraele.
Con il pedale dell’acceleratore a tavoletta, la macchina dell’Esercito era su di giri: nel 1940 venne formata una squadra di élite, il Battaglione sciatori Monte Cervino, composta da circa 300 uomini esperti della montagna, veloci e resistenti. Ai soldati fu dato il migliore equipaggiamento dell’epoca, sci Persenico, scarponi con suola in Vibram e una tuta bianca per meglio mimetizzarsi nella neve.
Una sciccheria.
Alessio fu scelto per essere uno di loro.

Non è chiaro se fu lui a fare domanda o se venne arruolato d’ufficio, ma in fondo poco importa: in un’epoca in cui essere militare e sportivo era sinonimo di quasi divinità, ricoperta di onori e gloria, ci si poteva far convincere facilmente, soprattutto quando l’alternativa era fare il pastore o il contrabbandiere sulle cime sperdute dell’Alta Valle.
Il 12 novembre 1940 si imbarcò a Brindisi alla volta di Durazzo, su un piroscafo veloce che in un giorno poteva mangiarsi l’Adriatico.
L’Albania si rivelò aspra e crudele, più brulla delle montagne di casa. Ben presto fu chiaro che l’allenamento non bastava a salvarsi la pelle, e che l’equipaggiamento non era sufficiente contro le mitragliatrici. Il Battaglione venne decimato: partiti in 340, tornarono in 60 uomini. Alessio fu uno di loro, scampò a parecchie imboscate e fece ritorno in Italia, magrissimo e mangiato dai pidocchi, ma vivo.


I documenti dicono che passò a casa trentaquattro giorni in licenza, dal 24 luglio al 27 agosto 1941.
Immagino che in quel mese avrà mangiato, si sarà ripulito per bene, e avrà falciato il fieno. In uno di quei giorni d’estate, mio nonno lo prese in un angolo e lo fissò negli occhi.
-Non tornare nell’esercito, ti rimandano via, si parla della Russia. Hai visto cos’è la guerra, sei scampato per un pelo. Non andare. Ti rompo un braccio, così non sanno che farsene di te, e tu ti salvi. –
Questo disse il fratello maggiore ad Alessio, giovane sportivo veloce come una lepre.
Ma lui non voleva il braccio rotto.
Disse -No, io vado. – e partì.


Il 16 aprile 1942 passò la frontiera russa, insieme al suo Battaglione, chiamato per dare man forte contro i famigerati russi. Con lui c’erano altri ragazzi dell’Alta Valle che conosceva bene: il compaesano Vittorio Bradanini, classe 1919, e il coetaneo Pierino Sertorelli di Bormio.
Da qualche parte nella steppa c’erano anche i suoi cugini Massimo e Domenico, alpini nel Tridentina. Chissà se si incontrarono, almeno una volta.
Piero no, non era in Russia, ma questa è tutta un’altra storia.

Un giovane Vittorio Bradanini (sulla dx) in attesa di gareggiare sugli sci.


Durante l’estate del ’42 Alessio scrisse qualche cartolina a casa, dicendo di stare bene. Ad un certo punto riferì di trovarsi in Ucraina ad aiutare i contadini a falciare il grano: rispetto al fieno rado delle Alpi dovette sembrargli oro.
Poi arrivò l’autunno, e l’inverno. Arrivò Natale, e scoppiò l’inferno.


I soldati del Battaglion Cervino erano veloci come fantasmi, avvolti nelle tute candide: “Satanas Bielij”, diavoli bianchi, così li chiamavano i russi, con un misto di ammirazione e paura. Si muovevano fra i vari squadroni nascondendosi nella neve per consegnare messaggi, comunicazioni,
strategie. Ma, nel gennaio del 1943, anche loro vennero infine disfatti.


Alessio, Vittorio e Pierino erano commilitoni e compaesani, ritrovatisi a migliaia di chilometri di distanza da casa, nel bel mezzo del caos. Decisero di rimanere insieme e di provare a tornare in
Italia: chissà dove e come, recuperarono una capra, la legarono a una corda e se la trascinarono dietro, spostandosi di villaggio in villaggio, insieme ad altri disperati, con il ghiaccio negli occhi e il
cielo spietato sopra la testa.
Secondo i documenti, Alessio venne visto vivo per l’ultima volta il 19 gennaio. Fu Vittorio, una volta tornato a casa, a raccontare a mio nonno che cosa era successo: stavano rifugiati in un’isba,
cercando di tenersi al caldo, quando erano cominciati gli spari. I russi rastrellavano il villaggio, li stavano cercando, era buio pesto e il panico riempì le loro ossa: Vittorio e Pierino riuscirono a scappare all’imboscata scivolando fuori da una finestrella. Corsero nella notte gelida, arrancando nella neve e nascondendosi agli spari. La mattina seguente, quando i russi se ne furono andati, si ritrovarono lividi e sopravvissuti.
Di Alessio, e della capra, non c’era più traccia.
Probabilmente fu ferito. Come dicono le carte, fu portato in un campo di prigionia, dove morì il 7 febbraio. Il luogo di sepoltura è ignoto.
E i suoi cugini?

Alessio Cirillo nella foto posta sulla lapide commemorativa presso la chiesa di Pedenosso in Valdidentro


A termine della guerra, giunse nella grande casa di Pecè un cappellano. Con sé aveva la piastrina e il portafoglio di Domenico: lo aveva assistito nelle sue ultime dolorose ore in un campo di prigionia siberiano, dove era stato deportato. I dettagli della sua morte li tralascio, per pudore.

Domenico Martinelli


Massimo partecipò alla battaglia di Nikolajewka e sopravvisse. Tornò a casa e non parlò mai volentieri di quello che gli accadde, anche se fino alla fine partecipò ai raduni dei reduci. Il suo cappello da alpino lo conserva con cura mio papà, insieme all’attestato di merito; è appeso ad una parete, mi capita di osservarlo spesso.


Anche Vittorio e Pierino, le ultime persone che videro vivo Alessio, tornarono a casa e morirono molti, molti anni dopo. Ciò che videro in quei mesi se lo portarono dentro, come uno squarcio che
non poteva essere ricucito.
Mio nonno, che conosceva bene Vittorio, diceva che dopo la Russia aveva cominciato a vivere come se nulla potesse più davvero toccarlo o danneggiarlo.
Forse, era proprio così.
Questa è la storia di un ragazzo che era troppo bravo a sciare.
Questa è la storia di una grande casa che perse in modo orribile due figli.
Questa è la Storia.
So che ce ne sono milioni di simili, tutte tristi e dolorose da raccontare e ascoltare. Ma è comunque giusto farlo, per non dimenticare Alessio e chi, come lui, è rimasto giovane per sempre, nel gelo della steppa.

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