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Per tutta la mia vita

Per tutta la mia vita, fino ai trent’anni suonati, giugno è stato il MDT, Mese Del Trasloco, detto anche MDM, Mese Della Mudeda.

Mudéda: nome femminile, l’insieme di persone, animali e cose, durante il trasferimento dalla casa all’alpeggio, e viceversa.

Dal latino mutare, ovvero cambiare. Ogni santissima estate.

Il giorno X non era mai lo stesso, veniva stabilito dai miei genitori con un calcolo infallibile che coincideva perfettamente con gli ultimi giorni di scuola, il che significa che se ho fatto due giorni di allegro cazzeggio di fine anno scolastico con patatine e bibite e calzoncini corti è un miracolo.

Mia madre iniziava frenetica a impacchettare, chiudere, sigillare, le scorte nel frigo diventavano man mano sempre più scarse (“tanto poi andiamo via, non possiamo mica lasciare il frigo acceso per tre mesi”, eh no, madre, non sia mai). Il gatto di casa veniva messo in un sacco delle patate (non si usavano i trasportini, o perlomeno nella mia famiglia non erano contemplati) e caricato nel baule strapieno e via, verso una nuova estate.

Per chi non lo sapesse ancora, la mia famiglia possiede un piccolo rifugio in Val Fraele.

Gestione famigliare, cucina locale, bella vista, immerso nel Parco Nazionale dello Stelvio, a solo un’oretta di macchina da Livigno. 

Praticamente in Inculandia, se hai dodici anni e cerchi disperatamente una vita sociale degna di essere chiamata così.

E infatti non è che vivessi il MDM proprio benissimo: dire che ero depressa è un complimento. Lasciavo i miei amici, la mia casetta, il tappeto elastico sotto la strada. Lasciavo i gelati, la televisione, il giocare a nascondino, la mia cartella squadrata, il rumore dei motorini sulla strada. 

Lasciavo il casino, e mi dispiaceva. 

Davanti ai miei occhi si profilavano tre infiniti mesi di montagna, con i laghi che si riempiono e si svuotano, fitti boschi di pino mugo che pizzicano le braccia, formicai giganti, scoiattoli da corrompere con le noccioline, bicchieri da asciugare, polentaspezzatinosalsicciafunghi da servire in bielle ustionanti, infiniti giri in bici, zero televisione se non con le VHS la sera o quando era bruttissimo tempo e non c’era gente in giro. 

Io e mio fratello, mio fratello e io. Poi è arrivato un altro fratello, e la mia candidatura di curamarmocchio è stata definitivamente ufficializzata.

Il momento top era andare a fare la spesa con il papà a Isolaccia, il primo nucleo abitato degno di questo nome, adagiato sul fondovalle a quaranta minuti di strada polverosa. Praticamente, Gardaland. Mentre mio padre riempiva scatoloni e scatoloni di provviste, io mi mettevo in un angolo dell’edicola e spiavo i fumetti, finché la signora alla cassa mi guardava malissimo e io, rossa come un pomodoro, rimettevo il Topolino al suo posto.

Poi riprendavamo la strada dei tornanti, che ancora era un buco unico e non asfaltata, e via, su su, oltre le Torri. 

Il telefono non c’era, ai tempi: lo installarono i miei all’inizio degli anni duemila.

Per le emergenze ci appoggiavamo ai guardiani della diga, che se ne stavano in una casetta sotto il muraglione.

La sera dovevamo ordinare il pane, che arrivava su sempre grazie al cambio dei guardiani: a turno io e mio fratello prendevamo la bici, attraversavamo la diga, bussavamo alla casetta dalle ante rosse, facevamo il numero del panificio e lasciavamo il messaggio nella segreteria, leggendo il biglietto che ci scriveva la mamma. Ogni tanto confondevamo la quantità di segale col pane bianco, ma la maggior parte delle volte ce la cavavamo alla grande.

Poi salutavamo i guardiani, con la loro divisa blu jeans, e schizzavamo a casa veloci come il vento, perché se diventa buio e vivi in una valle silenziosa e ricoperta di boschi, non è che sia proprio una figata.

Non era come vivere in alpeggio, quello no. Non avevamo bestie, solo qualche gallina e dei tacchini che il papà comprava alla fiera di san Gervasio, e gli scoiattoli che facevano la tana sugli alberi vicini alla casa. 

Eravamo fondamentalmente dei bambini molto soli, ci dovevamo bastare a vicenda.

Ho letto vagonate di libri, al rifugio. Mi imboscavo, letteralmente, e invece di asciugare le posate aprivo un libro. Le parole e le vicende che sbucavano dalle pagine stampate mi prendevano per mano, e per un po’ ero a spasso per il mondo. Ho fatto anche centinaia di migliaia di disegni, consumando le matite colorate del mio papà. 

A ripensarci adesso, in quelle lunghe estati ho gettato in maniera inconsapevole le basi di quello che sono ora. Me ne stavo ore china su uno dei tavoli in bar, la gente arrivava, chiedeva cose, mi guardava, andava in bagno, consumava un caffè, osservava le foto appese alle pareti, strillava di spavento quando vedeva la vipera sotto spirito nel caso di vetro. Io li osservavo a mia volta,quei turisti dall’aria svagata, e li invidiavo un pochino, perché il pomeriggio alle cinque sarebbero scesi, facendo ritorno a Bormio o a Livigno, e io invece rimanevo lì. 

Ero sempre affamata di gente, perché le persone erano macchie di colore nelle mie giornate: magari ci parlavo solo una decina di minuti, tra un caffè e una cioccolata, mi raccontavano da dove venivano, cosa facevano, mi dicevano che meraviglia starsene qua, ma che davvero voi vivete qui, ma che fortuna incredibile, l’anno prossimo ci porto pure mio nipote, che l’aria buona gli fa solo bene. Io ci credevo davvero, che l’anno dopo avrei avuto degli amici di città con cui fare fantastiche avventure. Poi ho smesso di crederci, perché ho capito che i ragazzini in genere non passano le vacanze a duemila metri, solo qualche gitarella e poi giù, in paese. Ci sono rimasta male, all’inizio, e ho cominciato a pensare che la mia vita sarebbe stata sempre lì, bloccata, a sognare altro. 

Poi sono cresciuta.

Stagione dopo stagione, mi sono accorta che la vita del rifugio, con la mudéda e tutto il resto, alla fine mi è entrata sottopelle. Gli amici sono arrivati comunque, distanza o no.

Alla fine ho lasciato il rifugio, anche io. 

Sono volata via.

Ci torno ancora, ma con la valigia leggera e il cuore pesante.

Posso solo essere infinitamente grata ai miei per aver fatto certe scelte.

Di qualcosa si deve pur campare, e loro hanno scelto il rifugio. Dimmi te che fortuna sfacciata ho avuto.

Anche io, forse, un giorno, lo sceglierò, di nuovo. 

E se davvero lo farò, sarà con la piena consapevolezza che è una scelta difficile, perché vivere la montagna in questa maniera è una sfida e, soprattutto, una rinuncia ad altro.

Ma quello che poi ti torna indietro non ha prezzo.

Ve lo posso assicurare. 

Traverse di luce

E la luce bussa alle porte del buio.

Senza chiedere il permesso, si fa strada fra le guglie, si infila negli spiragli della roccia, frantuma il cielo e dà inizio a un nuovo giorno.

Succede sempre, ma ogni volta è uno spettacolo.

Succede sempre, e sempre succederà.

Da una foto di Fabio Borga, acrilico su tela, 100×100, novembre 2020.

Luoghi vecchi, muri neri.

C’è un posto, poco lontano da casa, che amo particolarmente.
Si tratta di un rudere, un muro di pietre tenuto in piedi per miracolo, che quasi sembra appoggiato lì per caso, appena sotto il sentiero. Il bosco è fitto, la luce che vi filtra è poca, il muschio cresce fitto e grasso sui sassi.
Ci porto ogni tanto i bambini: ci sediamo sulle pietre che probabilmente componevano il muro della cantina e, mentre mangiamo qualcosa di merenda, ci immaginiamo come poteva essere la casa, quando ancora qualcuno ci abitava.
Il focolare c’è ancora, nell’angolo, i sassi sono neri, impregnati dal fumo e dalle tracce delle fiamme, come ancora c’è il braccio bucato di legno della cigögna, dove si appendeva la caldaia per preparare il formaggio.
Sopra, l’occhio vuoto di una finestra.
Ci immaginiamo la stalla, la cucina con le poche stoviglie impilate sugli scaffali, il pavimento sconnesso, la porta di legno scheggiato che cigolava.
Non doveva essere un posto molto strategico, così in piedi e circondato dalle alte piante, però era un bel posto.
È ancora un bel posto.
Ogni anno trovo il muro più storto, più vuoto: pian piano la calce si polverizza e i sassi rotolano sulla radura. Il buco sta diventando sempre più grande.
Ai bambini ho raccontato che ogni tanto, forse, qualche fata o streghetta del bosco viene qui a riposarsi.
Quando non sarà altro che un cumulo di pietre, le fate andranno da qualche altra parte.

Ci sono centinaia di questi luoghi abbandonati, fra le nostre montagne.
Luoghi che, a osservarli bene, ti fanno emozionare, a pensare a quante vite hanno visto passare, quante storie, quante parole sono state sussurrate o gridate fra le mura diroccate.
La terra è ricca di ricordi.
La terra è vecchia, e incredibilmente bella.

Marea

Ehi Samy, volevo dirti grazie.

Grazie per avermi accolto correndo, quando sono tornata a casa oggi pomeriggio. Per avermi dato un bacino sbauscioso sul naso e per avermi messo i tuoi stivaletti di gomma in mano, guardandomi fisso con quei tuoi occhi grandi. Avevi quell’espressione decisa di chi non ammette repliche, mentre puntavi col ditino la porta. E io no, dai, sono stanca, devo preparare la cena, il prato è brombo di pioggia.

Ma tu hai insistito come solo voi bimbi sapete fare, dai dai dai, mamma fuori, dai.

Grazie Samy, per avermi costretto a infilarmi di nuovo le scarpe, e la giacca dell’autunno, per uscire a fare quattro passi con te.

Il fiume era così gonfio che il suono del suo scorrere lo sentivamo senza vederlo, l’aria è cambiata, la pioggia ha lavato via la polvere calda dell’estate.

Abbiamo camminato fino al ponte, e in silenzio siamo rimasti a guardare il gorgo dell’acqua marrone che furiosa portava via tronchi e rami.

Abbiamo raccolto le piccole pozze di pioggia accoccolate fra le foglie dell’alchemilla, spruzzandocela in faccia fra mille risate.

Ci siamo tenuti per mano mentre il cielo si rischiarava nel tramonto.

Ho pensato che oramai è andata anche quest’anno, agosto domani muore e con lui la febbre che ci scorre nel sangue di lavoratori indefessi.

Ho pensato alla gente che sta tornando a casa, come una marea che ci ha sommerso e ora ci abbandona, lasciando tracce di ricordi e stanchezza e, sì, anche soddisfazione, dietro di sé.

Ho pensato a noi che rimaniamo qui, a respirare quest’aria lucida di pioggia, e alla fortuna che abbiamo.

Poi siamo rientrati, che avevi i pantaloni fradici e le guance belle rosse e fredde.

Grazie, Sam.

Quello che mi manca

Oggi ero in macchina, la musica un po’ a palla e la strada sgombra davanti, e ho iniziato a pensare a tutte quelle cose che mi mancano, a tutto ciò di cui faccio a meno da molto, troppo tempo, alle sensazioni situazioni e ai luoghi il cui ricordo mi accompagna costantemente nella routine delle giornate.

Camminare a lungo fra le vie di una città vecchia come il mondo.

Salire su un treno preso al volo e cercare un posto a sedere vicino al finestrino.

Stare come sardine in piedi in mezzo a moltitudini ad un concerto, con le scarpe belle allacciate per non rischiare di perderle nella mischia e la musica che ti batte direttamente nel petto.

Affondare le dita dei piedi nel bagnasciuga di una spiaggia.

Bere pigramente un aperitivo con addosso un vestito leggero, guardando il cielo che si arrossa.

Abbracciare forte.

Mandare a fanculo qualcuno senza troppe remore.

Guardare la schiena di mia madre, piccola e veloce, mentre cucina la cena.

Dormire in tenda e sentire la pioggia che batte sulla sua superficie.

Mangiare un’albicocca dolcissima con gli occhi chiusi.

Guardare i trailer dei film in uscita al cinema, mentre sei al cinema, al buio, in attesa di guardare il film che aspetti da mesi, e sognare il momento di poterli guardare, quei film che ti stanno mostrando in pillole dolci di popcorn.

Prendere la metropolitana e guardare chi sale con te.

Dormire fino a mezzogiorno, fare colazione o pranzo, e poi dormire tutto il pomeriggio, mentre fuori piove.

Non dormire per un notte intera per starsene a parlare, aspettando che spunti il sole.

Scoprire che in quel museo c’è un qualcosa che non ti aspettavi, ma che sembra davvero aspettarti da una vita.

Sentire l’odore dell’Asia, il vento dell’oceano, il sapore dell’Europa.

E molto altro.

Poi ho fatto una curva, ho quasi inchiodato, ho accostato con le quattro frecce accese in uno spiazzo. Ho svegliato i bambini con una carezza e insieme abbiamo attraversato la strada deserta.

Foto, risa, ooooh.

Di colpo, tutto quanto mi è mancato un po’ meno.

Pazienza!

Il pino mugo (pinus mugo) non è una pianta molto popolare. Ha un nome buffo, decisamente poco nobile, che ricorda funghi, sottoboschi, ombra, con quella U e la O vicine vicine. In dialetto è muf, dal suono ancora più comico e quasi spregevole. Il suo aspetto è quasi insignificante, tutto storto e poco imponente, con gli aghi scuri disordinati e pungenti. Cresce basso e allunga le radici storte fra i sentieri, fra le rocce e sui pendii sassosi. Il suo legno è pieno di nodi e resinoso, quando lo bruci scalda poco e dà un fumo grigio, che riempie le stufe di fuliggine densa. Nulla a che vedere con il solido abete, il mutevole larice, la nobile quercia, l’elegante e raffinato salice.

Sul pino mugo crescono gemme profumate che maturano violacee con il caldo dell’estate. Quando le raccogli, strappandole ai rami, ti pungono cattive, lasciando tracce collose di resina che rimangono a lungo sulle dita.

Quando muore, i suoi aghi rossi e arancioni diventano i mattoni dei formicai.

Pensavo a questa pianta, oggi.

Fino a tre giorni fa, questo mugo era completamente coperto da tonnellate di neve compatta. È stato sepolto per sei lunghissimi mesi, chiuso da una massa gelida e pesante, senza mai vedere un raggio di sole.

Pensavo fosse morto, finito.

E invece. Eccolo qui, tutto storto e ancora più piegato di prima, ma vivo. I suoi rami puntano in alto, dondolando nel vento, e già si riescono a scorgere le nuove piccole fresche gemme.

A luglio le raccoglierò, pungendomi le dita, e le metterò in un barattolo di vetro, ricoprendole di zucchero. Lo sciroppo lo darò ai miei bimbi il prossimo inverno, quando arriverà la tosse.

Ecco, l’augurio che posso fare a tutti è di essere, almeno un pochino, simili al mugo.

Semplici, magari storti, magari apparentemente poco utili, ma incredibilmente resistenti, affamati di sole e di aria. E pazienti.