
La prima volta che ho visitato il cimitero monumentale di Staglieno, a Genova, avevo diciassette anni. Ho scattato un sacco di foto, con una macchinetta che mi aveva regalato mia madre l’inverno precedente, e ho fatto sviluppare il rullino in toni seppia su carta satinata; ho conservato quelle foto in un album dalla copertina grigia, che mi ha accompagnato nei traslochi della vita e che ora giace nella scatola dei ricordi, insieme a poche altre cose.
La ragazza che mi accompagnò allora era una profonda conoscitrice di quel luogo, e devo a lei ogni passo, ogni aneddoto legato a queste statue. Mi accompagnò paziente in tutti gli angoli, nelle gallerie e fra le tombe sparse, facendomi notare tutti i particolari, le pieghe dei vestiti, le rughe scolpite nel marmo, i dettagli simbolici e le coincidenze raccontate nelle lastre consunte.

Non ho mai dimenticato quel pomeriggio e la meraviglia di quello che vidi.

Ho visitato Genova altre volte, camminando per i suoi vicoli e annusando i suoi aromi contrastanti, ma a Staglieno non ci sono tornata più.
Oggi mio marito, dopo un’estenuante visita all’acquario, con i bambini che dormivano in auto, mi ha lasciato davanti ai suoi cancelli. “Hai poco più di un’ora, prima che chiuda. Vai.” mi ha detto, senza troppi preamboli e ricami, e aveva un’espressione di dolcezza dipinta negli occhi, perché sapeva che mi stava facendo un regalo bellissimo.
Mi sono incamminata veloce nei porticati silenziosi, era tardo pomeriggio e non c’era nessuno; i passi facevano traballare le lastre di marmo sconnesse, mi spiaceva quasi calpestare tutti quei nomi, resi quasi illeggibili dal tempo. Ho incontrato solo due signori di una certa età, con mascherina e un mazzo di fiori in mano, che camminavano in silenzio senza guardarsi troppo intorno: sapevano già dove andare, la bellezza di quel luogo non poteva distrarli dalla meta.

Il cimitero è una città, mi disse la guida di tanto tempo fa. I suoi abitanti dormono, ma quasi li puoi sentire, puoi vedere i loro volti ritratti in pose eterne, le espressioni, le pieghe dei vestiti che la polvere ha reso di velluto. Le gallerie sono alte come case e i loculi arrivano fino al soffitto; avelli scoperchiati senza più alcun nome sembrano guardarti come bocche senza denti, e tu cammini più veloce, un po’ inquieta perché ok, sono morti e non ti fanno niente, però non ti piace essere sola, non proprio.
In ogni città che ho visitato, non ho mancato il cimitero. Ho curiosato fra le lapidi, ho letto centinaia di nomi, immaginato le storie, commuovendomi ogni volta. Ho appoggiato una mano sulla lastra che copre Modigliani e il suo amore, mi sono quasi persa nel Verano alla luce di un tramonto di fine inverno, ho sospirato nel Monumentale di Milano. Ma come Staglieno, mai più.

Perché solo lì ho visto le ciglia di pietra, e le lacrime di pioggia che ne definiscono i dettagli.

Dopo un’ora esatta, sono emersa da quel mondo sospeso di polvere e silenzio. Roby e i bambini addormentati mi aspettavano sotto un albero, e io mi sono sentita stracolma di vita, assetata di sole.