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Ciglia di pietra

La prima volta che ho visitato il cimitero monumentale di Staglieno, a Genova, avevo diciassette anni. Ho scattato un sacco di foto, con una macchinetta che mi aveva regalato mia madre l’inverno precedente, e ho fatto sviluppare il rullino in toni seppia su carta satinata; ho conservato quelle foto in un album dalla copertina grigia, che mi ha accompagnato nei traslochi della vita e che ora giace nella scatola dei ricordi, insieme a poche altre cose.

La ragazza che mi accompagnò allora era una profonda conoscitrice di quel luogo, e devo a lei ogni passo, ogni aneddoto legato a queste statue. Mi accompagnò paziente in tutti gli angoli, nelle gallerie e fra le tombe sparse, facendomi notare tutti i particolari, le pieghe dei vestiti, le rughe scolpite nel marmo, i dettagli simbolici e le coincidenze raccontate nelle lastre consunte.

Non ho mai dimenticato quel pomeriggio e la meraviglia di quello che vidi.

Ho visitato Genova altre volte, camminando per i suoi vicoli e annusando i suoi aromi contrastanti, ma a Staglieno non ci sono tornata più.

Oggi mio marito, dopo un’estenuante visita all’acquario, con i bambini che dormivano in auto, mi ha lasciato davanti ai suoi cancelli. “Hai poco più di un’ora, prima che chiuda. Vai.” mi ha detto, senza troppi preamboli e ricami, e aveva un’espressione di dolcezza dipinta negli occhi, perché sapeva che mi stava facendo un regalo bellissimo.

Mi sono incamminata veloce nei porticati silenziosi, era tardo pomeriggio e non c’era nessuno; i passi facevano traballare le lastre di marmo sconnesse, mi spiaceva quasi calpestare tutti quei nomi, resi quasi illeggibili dal tempo. Ho incontrato solo due signori di una certa età, con mascherina e un mazzo di fiori in mano, che camminavano in silenzio senza guardarsi troppo intorno: sapevano già dove andare, la bellezza di quel luogo non poteva distrarli dalla meta.

Il cimitero è una città, mi disse la guida di tanto tempo fa. I suoi abitanti dormono, ma quasi li puoi sentire, puoi vedere i loro volti ritratti in pose eterne, le espressioni, le pieghe dei vestiti che la polvere ha reso di velluto. Le gallerie sono alte come case e i loculi arrivano fino al soffitto; avelli scoperchiati senza più alcun nome sembrano guardarti come bocche senza denti, e tu cammini più veloce, un po’ inquieta perché ok, sono morti e non ti fanno niente, però non ti piace essere sola, non proprio.

In ogni città che ho visitato, non ho mancato il cimitero. Ho curiosato fra le lapidi, ho letto centinaia di nomi, immaginato le storie, commuovendomi ogni volta. Ho appoggiato una mano sulla lastra che copre Modigliani e il suo amore, mi sono quasi persa nel Verano alla luce di un tramonto di fine inverno, ho sospirato nel Monumentale di Milano. Ma come Staglieno, mai più.

Perché solo lì ho visto le ciglia di pietra, e le lacrime di pioggia che ne definiscono i dettagli.

Dopo un’ora esatta, sono emersa da quel mondo sospeso di polvere e silenzio. Roby e i bambini addormentati mi aspettavano sotto un albero, e io mi sono sentita stracolma di vita, assetata di sole.

Marea

Ehi Samy, volevo dirti grazie.

Grazie per avermi accolto correndo, quando sono tornata a casa oggi pomeriggio. Per avermi dato un bacino sbauscioso sul naso e per avermi messo i tuoi stivaletti di gomma in mano, guardandomi fisso con quei tuoi occhi grandi. Avevi quell’espressione decisa di chi non ammette repliche, mentre puntavi col ditino la porta. E io no, dai, sono stanca, devo preparare la cena, il prato è brombo di pioggia.

Ma tu hai insistito come solo voi bimbi sapete fare, dai dai dai, mamma fuori, dai.

Grazie Samy, per avermi costretto a infilarmi di nuovo le scarpe, e la giacca dell’autunno, per uscire a fare quattro passi con te.

Il fiume era così gonfio che il suono del suo scorrere lo sentivamo senza vederlo, l’aria è cambiata, la pioggia ha lavato via la polvere calda dell’estate.

Abbiamo camminato fino al ponte, e in silenzio siamo rimasti a guardare il gorgo dell’acqua marrone che furiosa portava via tronchi e rami.

Abbiamo raccolto le piccole pozze di pioggia accoccolate fra le foglie dell’alchemilla, spruzzandocela in faccia fra mille risate.

Ci siamo tenuti per mano mentre il cielo si rischiarava nel tramonto.

Ho pensato che oramai è andata anche quest’anno, agosto domani muore e con lui la febbre che ci scorre nel sangue di lavoratori indefessi.

Ho pensato alla gente che sta tornando a casa, come una marea che ci ha sommerso e ora ci abbandona, lasciando tracce di ricordi e stanchezza e, sì, anche soddisfazione, dietro di sé.

Ho pensato a noi che rimaniamo qui, a respirare quest’aria lucida di pioggia, e alla fortuna che abbiamo.

Poi siamo rientrati, che avevi i pantaloni fradici e le guance belle rosse e fredde.

Grazie, Sam.

Quello che mi manca

Oggi ero in macchina, la musica un po’ a palla e la strada sgombra davanti, e ho iniziato a pensare a tutte quelle cose che mi mancano, a tutto ciò di cui faccio a meno da molto, troppo tempo, alle sensazioni situazioni e ai luoghi il cui ricordo mi accompagna costantemente nella routine delle giornate.

Camminare a lungo fra le vie di una città vecchia come il mondo.

Salire su un treno preso al volo e cercare un posto a sedere vicino al finestrino.

Stare come sardine in piedi in mezzo a moltitudini ad un concerto, con le scarpe belle allacciate per non rischiare di perderle nella mischia e la musica che ti batte direttamente nel petto.

Affondare le dita dei piedi nel bagnasciuga di una spiaggia.

Bere pigramente un aperitivo con addosso un vestito leggero, guardando il cielo che si arrossa.

Abbracciare forte.

Mandare a fanculo qualcuno senza troppe remore.

Guardare la schiena di mia madre, piccola e veloce, mentre cucina la cena.

Dormire in tenda e sentire la pioggia che batte sulla sua superficie.

Mangiare un’albicocca dolcissima con gli occhi chiusi.

Guardare i trailer dei film in uscita al cinema, mentre sei al cinema, al buio, in attesa di guardare il film che aspetti da mesi, e sognare il momento di poterli guardare, quei film che ti stanno mostrando in pillole dolci di popcorn.

Prendere la metropolitana e guardare chi sale con te.

Dormire fino a mezzogiorno, fare colazione o pranzo, e poi dormire tutto il pomeriggio, mentre fuori piove.

Non dormire per un notte intera per starsene a parlare, aspettando che spunti il sole.

Scoprire che in quel museo c’è un qualcosa che non ti aspettavi, ma che sembra davvero aspettarti da una vita.

Sentire l’odore dell’Asia, il vento dell’oceano, il sapore dell’Europa.

E molto altro.

Poi ho fatto una curva, ho quasi inchiodato, ho accostato con le quattro frecce accese in uno spiazzo. Ho svegliato i bambini con una carezza e insieme abbiamo attraversato la strada deserta.

Foto, risa, ooooh.

Di colpo, tutto quanto mi è mancato un po’ meno.

I libri che ti fanno vivere.

Io ci ho provato. Davvero.

Dai, un libro al giorno per sette giorni. Ma è dura, durissima. Sette giorni sono pochi, come faccio? Cioè, scelgo a caso? Estraggo a sorte dal mazzo, con un occhio chiuso a metà?

E poi. Niente commenti, solo la copertina. Figo, penso. Così non si influenza nessuno, ognuno trae le proprie conclusioni, grazie per lo stuzzicore, mi faccio un’idea ma non troppo.

Ok, ma io non ce la posso fare così. Voglio dire, riesco ad essere logorroica anche quando scrivo di pesci rossi, anatre sperdute e cassonetti dell’immondizia: siete davvero certi che possa resistere alla tentazione di commentare qualcosa che mi ha fatto palpitare forte il cuore? No, dai.

Come posso, ad esempio, pubblicare la copertina consumata de Il maestro e Margherita, senza raccontarvi che quando lo aprii la prima volta ero in treno, circondata dalla pianura padana, e poi per tre ore non fui più lì, ma in un universo scoppiettante e meraviglioso che mi lasciò senza fiato?

E Barnum, raccolta 1 e 2, sottolineate fino a trasformare le pagine di carta grigiastra in piccole autostrade per formiche diligenti. Potrei recitare interi pezzi a memoria,  facendo una lista delle persone a cui ho dedicato quelle pagine.

Bill Bryson, grazie di cuore, il tuo giro per l’Europa viene periodicamente rispolverato per tirarmi su di morale, e ogni volta funzioni che Xanax levati proprio. Ken Follett e la sua macchina del tempo, declinato nelle sfumature dei secoli, migliaia di pagine che mi hanno trascinato a spasso per il mondo.

Signor Eco, quando sei morto ho pianto, anche se (è dura confessarlo) i tuoi romanzi mi sono più indigesti di un piatto di pizzoccheri freddi. In compenso, tutto quello che hai scritto in saggistica mi trapana la testa ogni volta. Non per niente, “Non sperate di liberarvi dei libri” è nella classifica del mio comodino da anni. Non riesco proprio a metterlo via, ecco.

La valle dell’Eden mi ha fatto scoprire la cattiveria allo stato puro, La casa degli spiriti mi ha sconvolto e ammaliato come un incantesimo. Vita e La lunga attesa dell’angelo mi hanno fatto scattare un interruttore dentro, che da allora non si è più spento: non solo sono scritti come dei dipinti, ma raccontano storie che hanno il dovere di essere raccontate. E come le racconta lei, non c’è paragone.

Mi sono sbronzata di caldo con Cent’anni di solitudine, e rattrappita di freddo con Endurance. I quattro libri dell’Amica geniale hanno consumato le mie notti, smangiucchiato le pause pranzo, trapassato i pomeriggi. E dire che non mi ispirava per niente, perché le copertine sono orrende. Quando li ho terminati, ho letteralmente scagliato a terra il libro.

Ho pianto incazzata con quella deficiente di Emma, perché un uomo buono non si può davvero trattare così. Mentre le paturnie di Zeno mi hanno fatto ridere tantissimo, in barba al tizio serio che sedeva davanti nell’intercity Milano Genova. Con Open ho rischiato di iniziare a giocare a tennis, perdincibacco, e Donna imperiale della Buck mi ha regalato un gusto del dettaglio che è duro a morire. Uccelli di rovo l’ho letto tre volte, a dodici, ventidue e trentadue anni. Ogni volta è stato diverso, il che è meraviglioso.

Armi, acciaio e malattie mi ha letteralmente salvato dalla depressione più nera, in un periodo tosto. A mia madre, lettrice oculata e consigliera di una vita, avevano appena diagnosticato metastasi alle ossa. Pensavo di impazzire dal dolore. Leggere quel libro mi ha dato una visione della vita umana molto più pragmatica di quella che ero abituata ad avere, dandomi un nuovo paio di lenti attraverso cui ancora oggi riesco a vedere e a non soccombere nell’ansia.

Tralascio i dettagli su Gaiman, Stephen King e LeGuin. Sono delle querce su cui amo rifugiarmi, quando le faccende si fanno pesanti.

Non nomino nessun libro della mia infanzia, o dell’infanzia dei miei figli, perché prima o poi ci farò un tema dedicato.

Quindi

grazie a tutte le persone che hanno pensato a me nella sfida dei sette libri in sette giorni. È bellissimo vedere i gusti degli altri, indovinarne il carattere, ispirarsi o, anche, sorriderci su. Scusate se io non riesco a scegliere, né a fare una lista sensata e ordinata, non ce la faccio proprio.

La cosa che mi manda completamente fuori di testa è che io, tanti libri, NON ME LI RICORDO. Anche quelli belli belli. Quando mi chiedono un consiglio, vado in sbattimento. Ho bisogno di tempo, di concentrazione. Perché consigliare un libro non è mica uno scherzo.

Un libro ti cambia la vita.

Tanti libri, te la creano.

Pazienza!

Il pino mugo (pinus mugo) non è una pianta molto popolare. Ha un nome buffo, decisamente poco nobile, che ricorda funghi, sottoboschi, ombra, con quella U e la O vicine vicine. In dialetto è muf, dal suono ancora più comico e quasi spregevole. Il suo aspetto è quasi insignificante, tutto storto e poco imponente, con gli aghi scuri disordinati e pungenti. Cresce basso e allunga le radici storte fra i sentieri, fra le rocce e sui pendii sassosi. Il suo legno è pieno di nodi e resinoso, quando lo bruci scalda poco e dà un fumo grigio, che riempie le stufe di fuliggine densa. Nulla a che vedere con il solido abete, il mutevole larice, la nobile quercia, l’elegante e raffinato salice.

Sul pino mugo crescono gemme profumate che maturano violacee con il caldo dell’estate. Quando le raccogli, strappandole ai rami, ti pungono cattive, lasciando tracce collose di resina che rimangono a lungo sulle dita.

Quando muore, i suoi aghi rossi e arancioni diventano i mattoni dei formicai.

Pensavo a questa pianta, oggi.

Fino a tre giorni fa, questo mugo era completamente coperto da tonnellate di neve compatta. È stato sepolto per sei lunghissimi mesi, chiuso da una massa gelida e pesante, senza mai vedere un raggio di sole.

Pensavo fosse morto, finito.

E invece. Eccolo qui, tutto storto e ancora più piegato di prima, ma vivo. I suoi rami puntano in alto, dondolando nel vento, e già si riescono a scorgere le nuove piccole fresche gemme.

A luglio le raccoglierò, pungendomi le dita, e le metterò in un barattolo di vetro, ricoprendole di zucchero. Lo sciroppo lo darò ai miei bimbi il prossimo inverno, quando arriverà la tosse.

Ecco, l’augurio che posso fare a tutti è di essere, almeno un pochino, simili al mugo.

Semplici, magari storti, magari apparentemente poco utili, ma incredibilmente resistenti, affamati di sole e di aria. E pazienti.

Funamboli

È una magnifica mattina, oggi.

Il sole taglia le finestre e scalda il pavimento di legno, è domenica, i bambini ancora dormono. Li porterò a spasso, stamattina, al diavolo le pulizie, l’ordine, i panni da piegare e riporre nell’armadio. Cammineremo sulla neve scrocchiolosa, magari in mezzo agli alberi, tirando la slitta e ridendo allegri.

Per un attimo, faremo finta di niente, come se fosse tutto normale. E invece di normale non c’è proprio niente.

È domenica mattina, otto marzo duemila venti, mi sento piena di energia, eppure così svuotata.

Potrei scrivere qualcosa sulle donne, avrei scatervate di frasi da mettere insieme, provocazioni, emozioni, ricordi. Ma non me la sento. Non so da dove cominciare.

Abbiamo tutti voglia di tornare alla normalità, alle solite cose, allo stress del lavoro e alle chiacchere banali. Vorrei parlare del tempo, del freddo, delle vacanze, dei soldi, del viaggio che vorrei fare, del laboratorio da organizzare.

Ma, allo stesso tempo, non riesco a fare finta di niente. Quello che sta succedendo è troppo grande, troppo serio, troppo travolgente per ignorarlo.

Non riesco a capire dove andare a parare. Ogni santo giorno è un’altalena di notizie e opinioni che cozzano l’una con l’altra, chi condivide ogni starnuto e chi tace, muto. Chi sdrammatizza e chi fa lo struzzo, chi caccia la testa nella neve e chi allegramente fa finta di nulla.

Ci sta tutto, e non ci sta niente. Siamo tutti confusi e spaventati da ciò che verrà.

Di una cosa sola sono sicura. Prima o poi, finirà.

E allora sarà fighissimo. Una sbornia di allegria e felicità, con un enorme, travolgente sospiro di sollievo che riempirà il cielo.

È già successo, centinaia di volte, e succederà ancora.

Nel frattempo, aspettiamo, aspetto. Adesso vado a fare la colazione ai bambini, poi li infilo nella tuta e usciamo a fare una passeggiata.

Siamo funamboli, in bilico. Affrontiamo un passo alla volta, respirando con calma, senza agitazione. Più rimaniamo calmi, e prima arriveremo dall’altra parte. Saremo diversi, ma ci saremo.

Cocci

Molto tempo fa, ancora prima che io e Roby avessimo anche solo l’idea di formare una famiglia, ci regalarono un piccolo presepe in terracotta. Era simpatico, con i pupazzetti cicciosi dall’aria sorridente, molto semplice e senza pretese: solo Giuseppe, Maria, un Gesù che fa tutt’uno con la mangiatoia, asino, bue e tre Re Magi. Stop.

Lo adorai immediatamente. Da allora, ha sempre trovato posto nel nostro soggiorno incasinato, fra lettere, candeline, libri e chiavi sparpagliate. Prima aveva un’ambientazione fissa, ma da che Linnea ha cominciato a giocarci, ci abbiamo rinunciato. Ogni tanto troviamo Gesù nascosto dietro l’acquario, o Maria appoggiata precariamente sul barattolo del caffè. I Re Magi viaggiano per tutto il corridoio, litigando con i puffi e la bambola di Elsa, mentre Giuseppe fa il pastore alla stalla di plastica.

Prima di andare a dormire, tutto torna, più o meno, al suo posto.

L’altro giorno Linnea ha rotto un Re Magio. La statuina di Melchiorre (non so se è proprio lui, ma ho deciso di sì) le è scivolata di mano e si è frantumata in tanti pezzi. Lei si è precipitata da me, piangendo disperata. “Aggiustala, aggiustala, per favore, ti prego, non volevo, no, no”, singhiozzava. Io non sapevo cosa fare. I pezzettini di terracotta erano sparpagliati sul pavimento, fragili e numerosi, mentre la testolina di Melchiorre sembrava fissarmi con i suoi occhi a oliva. La tentazione di prendere la scopa e buttare via tutto era fortissima, ma la mia bambina era sinceramente mortificata e mi guardava attraverso moccio e lacrime. E poi, un presepe con due Magi non si è proprio mai sentito.

Si rompono i bicchieri e i piatti. Si rompe la televisione, il cellulare, la macchina. Si rompe la punta della matita, la suola delle scarpe se si cammina tanto, la busta della lettera che hai paura di leggere. Si rompono i pantaloni all’altezza del ginocchio, gli occhiali se li lasci senza custodia, si rompono i libri se li sfoglia un bambino curioso. Si rompono le scatole, i silenzi, le abitudini. Si rompono i cuori.

Le cose si rompono, soprattutto se vengono usate.

Qualcuna si rompe se non viene usata mai.

Ma per ogni cosa rotta c’è una remota possibilità di essere aggiustata. Magari non sarà mai più la stessa, la rottura l’ha cambiata, l’ha resa fragile. Forse non potrai usarla come un tempo, non funzionerà come prima. Magari diventerà qualcosa di nuovo.

Per quest’ anno che viene, posso solo augurare tante cose vissute, giocate, sognate, usate, rotte. Auguro che ci sia sempre qualcuno che dica “Vedrai che si aggiusta tutto.” Auguro di crederci con tutta l’anima, in questa promessa. Perché alla fine è ciò che conta di più, sperare e, anche, sapere accettare.

Ultima lettera

“Gentile signora,

La ringrazio per la sua lettera.

Non sono solito a rispondere ai lettori, ma per lei ho ritagliato un angolo di tempo in questo afoso pomeriggio di gennaio.

Ho chiuso le tende del mio ufficio per non fare penetrare il sole inclemente, così da sentire appena le onde del mare che sciaguattano sul marciapiede. Perché indugio su dettagli così insignificanti mentre le scrivo? Mi stupisco da solo. Sono un uomo di scienza, dirigo con polso fermo una rivista seria e accurata. Le più grandi menti del globo sono passate sotto i miei occhi attenti, conosco ogni dettaglio e sfaccettatura della nostra storia, antica e moderna.

Chi mangia cosa? Livigno

Eppure, l’ingenuità (scusi la franchezza, ma non mi sovviene altro termine) che traspare dalle sue mirabolanti teorie sul Mondo Prima del Mare ha smosso qualcosa in me, qualcosa che non riesco a decifrare. Signora…signorina…ma Lei ci crede davvero? È veramente convinta di ciò che afferma?  Che domande. Certo che ci crede. Espone le sue ipotesi con una naturalezza disinvolta, a me, il direttore, pretendendo di essere ascoltata, capita, addirittura pubblicata! Devo dire che il tono da lei usato è molto educato e rispettoso. In caso contrario l’avrei cestinata senza pietà. E invece, eccomi qui.

Da principio ho molto riso, sa. È una cosa che mi capita di rado.

Vede, il mio mestiere è davvero…risucchiante. Articoli da correggere, persone da ascoltare, calcoli da fare. E questo maledetto mare che ormai lambisce le fondamenta del nostro edificio, divora la nostra amata città-isola, che ci mangia via il cemento, fa marcire le preziosissime riserve di rifiuti che teniamo nei piani più bassi. Le autorità mi mandano radiogrammi sempre più preoccupate, gli scienziati sbraitano fra loro, tutti convinti di aver trovato un nuovo metodo per salvare qualcosa che, detto brutalmente, non so se abbia davvero voglia di essere salvato. Ecco, signorina (signora?), questo è il punto. Tutti chiedono o vogliono qualcosa. Ma lei…lei no. Lei sogna, gentile lettrice. 

Blatera (con gentilezza e fascino, lo ammetto, ma sempre blaterare è) di una terra esistita centinaia e centinaia di anni fa, fatta di accumuli di rocce enormi, coperte da neve e ghiaccio. Ghiaccio! Stiamo parlando dello stesso elemento che mi rinfresca piacevolmente il drink di metà pomeriggio? Sicuramente ha il dono dell’ironia, lei. E della fantasia.

Parla di neve diversa da quella che conosciamo noi, così perfetta ed eterna perché ricavata dalla plastica tritata. Mi racconta di una poltiglia leggera, gelida, che scendeva dal cielo in fiocchi dondolanti, trasformandosi e trasformando il tempo e le stagioni. Bianca, azzurra, crostosa, soffice, fradicia, scintillante. Perdoni il mio scetticismo, ma davvero mi pare improbabile.

Nomina animali privi di squame (con…pelo?? Quale curiosa caratteristica!)  che si muovevano intrepidi su ripide superfici, circondati da una vegetazione spontanea (sic! che ossimoro) in grado di sopravvivere in un clima aspro e selvaggio. Narra di acqua che sgorgava furiosa da tagli profondi nella roccia, miracolosamente dolce senza essere filtrata da alcun tipo di dissalatore. Magia? Suvvia, rimaniamo seri. 

Queste… montagne? Scrivo giusto? Mi scusi, ma sa, con questo caldo, ho la vista annebbiata. Dunque, secondo le sue teorie bislacche, le montagne erano addirittura abitate. Per un breve secondo mi è parso di vederli, questi abitanti pazzoidi in un mondo di gelidi stenti, chiusi in casette isolate, con il fuoco per scaldarsi, il fuoco! Ah, se c’è una cosa che detesto, sono le fiamme vive. Non che abbia avuto l’occasione di osservarle spesso, però…brrr, con questo caldo mi viene l’orrore, mi sudano le orecchie. Le fiamme sono per gli scienziati e per i morti. Io non sono morto.  Non ancora. 

Comunque, seguendo le sue lunghe e accurate ricerche, se così si possono chiamare, le montagne possedevano un fascino unico: superfici verticali mutevoli e spaventose, nascoste fra le nubi, che in un attimo, quando soffiava il vento e il cielo si puliva, potevano scintillare come stelle. Mi parla di luoghi massicci, attraversati da strade tortuose e sentieri sottili, di migliaia di reticoli calpestati da uomini e animali.

Porta pazienza, ci sono! Dolomiti

Mi scrive che le montagne erano belle, fredde, ventose e selvatiche. E che ora sono sotto il mare, insieme a tutto il resto.

Che ipotesi meravigliosamente assurda, la sua. Mi ha quasi commosso leggere che, secondo lei, quegli spuntoni che affiorano dall’oceano, verso est, così infidi e pericolosi, altro non siano che le cime più alte e remote! 

Mia cara lettrice dalla mente suggestionabile, mi duole dirlo così brutalmente, ma io stesso ho visto queste rocce affiorare di qualche metro dalle onde grigie. Non sono che scogli, pericolosi e lisci e anonimi. Tristi, con quegli squallidi pali di ferro sulla sommità, tutti arrugginiti e storti. Aste di bandiere, dice? E quale nazione vuole veder sventolare la propria bandiera nel mezzo del nulla?

Ora, io la ringrazio. Quello che mi ha donato è stato un momento di puro sogno. Per un attimo ho quasi creduto che, un tempo lontano, l’orizzonte che conosciamo fosse diverso. Mi è piaciuto immaginarlo. L’ho visto, quasi sentito. Si può sentire un’immagine?

Ah, signora, signorina che mi parla da lontano, la prego, mi scriva ancora. Mi racconti di alberi che mutano il colore delle chiome, del fumo della legna (cosa sarebbe? Una speciale plastica combustibile?) che brucia, della neve vera, quella fredda e mutabile. Mi parli ancora di un mondo che era questo ma che non è più, delle incisioni subacquee che ha scoperto, delle storie tramandate di bocca in bocca che ha udito e raccolto.

Io ascolterò, mia impavida ricercatrice, esattamente come si ascolta una fiaba, una leggenda che sa di fresco e di vento. 

Ti ricordi di me? Adamello

La mia lettera è forse troppo lunga, il suo contenuto pesante e sudaticcio, ma confido nel mio messaggero piumato. Che le sue ali possano solcare questo mare ancora un po’, prima che le spiagge vengano divorate per sempre.

Con ossequi,

Il direttore della rivista Nature.”

Questa storia partecipa al Blogger.Contest.2019

BC.2019

Abbassati!

Madonna di Tirano, fiume Poschiavino

Vivere sopra i milleottocento metri ha i suoi vantaggi, tipo che, detta proprio brutalmente, per via della scarsa ossigenazione hai il sangue che somiglia alla marmellata (non so voi, ma è da quando ho otto anni che questa immagine pulp mi perseguita).

Quindi, se per svariate ragioni esci dal paese e ti abbassi di quota (ricordandoti che sì, esiste un mondo, oltre la cornice rococò delle montagne), ti senti dotato di superpoteri.

Cammini di fretta e non hai il fiatone.

Il cuore sembra battere più deciso e forte, ma senza quell’allarmante ritmo da percussionista sudamericano. Sembra fare il suo lavoro per benino, lui, e raramente lo senti all’altezza della giugulare.

Quando fai le scale con qualcuno che non condivide il tuo medesimo destino da montanaro, te ne accorgi al volo. Lo guardi con sufficienza dal pianerottolo mentre arranca abbarbicandosi alla ringhiera, mentre tu fai i gradini tre a tre con la leggerezza di una gazzella.

Ma la cosa più bella di abbassarsi di quota ogni tanto non è la prestanza fisica con cui affronti le faccende, che sia affrontare la maratona tra le vigne o la spesa mensile all’Iperal.

È viaggiare tra le stagioni.

Se è aprile, parti dalla valle con i colori marrone fango e beige neve sporca depositati in fondo agli occhi. La giacca, che tieni addosso a mo’ di seconda pelle da tipo cinque mesi, odora di vento freddo e fumo di camino.

Ma ti abbassi di quota ed ecco la primavera. Inizi a spogliarti solo a quota 800 metri, perché non ti fidi del tutto del termometro della macchina. Fuori, oltre ad esserci venticinque gradi (la temperatura che a casa tua raggiungi a fine luglio, se Dio vuole), è un tripudio di colori pastello. L’erba è alta lungo il guardrail, pronta per essere tagliata. Si muove ondeggiando al vento tiepido, e tu ti senti praticamente già al mare, con la sabbia fra le dita dei piedi.

Ma la meraviglia pura è l’autunno.

A casa mia i larici cominciano a tingersi di un verde giallo da evidenziatore già ai primi di settembre. Se tutto va bene, a metà ottobre il bosco è di un arancione intenso, che si staglia orgoglioso contro il verde scuro dei pini e il marrone caldo del terreno.

Ma a fine ottobre, vuoi la neve vuoi il vento, gli aghi sottili si sono già depositati tutti sul terreno, a miliardi, a formare un tappeto morbido che scricchiola se lo calpesti.

Fine, fertig, finish.

In basso invece tutto comincia più tardi, e più densamente.

Se l’autunno a Livigno è un incendio che divampa e si spegne in un battito di ciglia, a bassa quota invece è un fuoco che si accende piano piano, inesorabile e graduale. Si comincia dalle betulle luccicose, poi la vite inizia a sanguinare e infine tutto brucia in mille sfumature di ottobre.

Uno spettacolo.

Quindi, è bellissimo potersi abbassare di quota, ogni tanto.

Anche solo per sentire ancora un po’ di calore nelle ossa, prima di affrontare i morsi dell’inverno. Per ricordarsi che le stagioni sono quattro, e che il mondo gira, non sta mai fermo, anche se ogni tanto sembra immobile, incastrato come un diamante tra le nostre convinzioni.

Preghiera

Io non lo so se ci credo o no, in te.

Ci sono momenti in cui mi fai arrabbiare tantissimo, di quella rabbia di bambini con i pugni stretti sulle ginocchia e gli occhi che fanno male.

Ci sono volte in cui mi fai paura, perché sei lontano e grande e sembri impazzito, come un vecchio ubriaco che borbotta da solo guardando una pozzanghera.

E in quella pozzanghera ci siamo noi.

Ogni tanto mi pare di intravederti, di sentire una voce conosciuta, mi giro e ti cerco, ma sei già andato via.

Se davvero un giorno ti incontrassi, vorrei solo farti una domanda, e ascoltare attenta la risposta.

Perché fai così male. Ce n’è davvero bisogno?

Ma poi, mi guardo intorno, e vedo così tanta bellezza, così tanta potenza, e leggerezza, che mi viene da sorridere.

E penso che di sicuro, se esisti davvero, da qualche parte intorno a noi, sei veramente un grande artista.

E che, come tutti gli artisti, non ti si può chiedere di più che quello che già ci dai.

Perché è già il massimo di quello che puoi.