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Appunto segni e disegni su quello che mi frulla dentro.

Per tutta la mia vita

Per tutta la mia vita, fino ai trent’anni suonati, giugno è stato il MDT, Mese Del Trasloco, detto anche MDM, Mese Della Mudeda.

Mudéda: nome femminile, l’insieme di persone, animali e cose, durante il trasferimento dalla casa all’alpeggio, e viceversa.

Dal latino mutare, ovvero cambiare. Ogni santissima estate.

Il giorno X non era mai lo stesso, veniva stabilito dai miei genitori con un calcolo infallibile che coincideva perfettamente con gli ultimi giorni di scuola, il che significa che se ho fatto due giorni di allegro cazzeggio di fine anno scolastico con patatine e bibite e calzoncini corti è un miracolo.

Mia madre iniziava frenetica a impacchettare, chiudere, sigillare, le scorte nel frigo diventavano man mano sempre più scarse (“tanto poi andiamo via, non possiamo mica lasciare il frigo acceso per tre mesi”, eh no, madre, non sia mai). Il gatto di casa veniva messo in un sacco delle patate (non si usavano i trasportini, o perlomeno nella mia famiglia non erano contemplati) e caricato nel baule strapieno e via, verso una nuova estate.

Per chi non lo sapesse ancora, la mia famiglia possiede un piccolo rifugio in Val Fraele.

Gestione famigliare, cucina locale, bella vista, immerso nel Parco Nazionale dello Stelvio, a solo un’oretta di macchina da Livigno. 

Praticamente in Inculandia, se hai dodici anni e cerchi disperatamente una vita sociale degna di essere chiamata così.

E infatti non è che vivessi il MDM proprio benissimo: dire che ero depressa è un complimento. Lasciavo i miei amici, la mia casetta, il tappeto elastico sotto la strada. Lasciavo i gelati, la televisione, il giocare a nascondino, la mia cartella squadrata, il rumore dei motorini sulla strada. 

Lasciavo il casino, e mi dispiaceva. 

Davanti ai miei occhi si profilavano tre infiniti mesi di montagna, con i laghi che si riempiono e si svuotano, fitti boschi di pino mugo che pizzicano le braccia, formicai giganti, scoiattoli da corrompere con le noccioline, bicchieri da asciugare, polentaspezzatinosalsicciafunghi da servire in bielle ustionanti, infiniti giri in bici, zero televisione se non con le VHS la sera o quando era bruttissimo tempo e non c’era gente in giro. 

Io e mio fratello, mio fratello e io. Poi è arrivato un altro fratello, e la mia candidatura di curamarmocchio è stata definitivamente ufficializzata.

Il momento top era andare a fare la spesa con il papà a Isolaccia, il primo nucleo abitato degno di questo nome, adagiato sul fondovalle a quaranta minuti di strada polverosa. Praticamente, Gardaland. Mentre mio padre riempiva scatoloni e scatoloni di provviste, io mi mettevo in un angolo dell’edicola e spiavo i fumetti, finché la signora alla cassa mi guardava malissimo e io, rossa come un pomodoro, rimettevo il Topolino al suo posto.

Poi riprendavamo la strada dei tornanti, che ancora era un buco unico e non asfaltata, e via, su su, oltre le Torri. 

Il telefono non c’era, ai tempi: lo installarono i miei all’inizio degli anni duemila.

Per le emergenze ci appoggiavamo ai guardiani della diga, che se ne stavano in una casetta sotto il muraglione.

La sera dovevamo ordinare il pane, che arrivava su sempre grazie al cambio dei guardiani: a turno io e mio fratello prendevamo la bici, attraversavamo la diga, bussavamo alla casetta dalle ante rosse, facevamo il numero del panificio e lasciavamo il messaggio nella segreteria, leggendo il biglietto che ci scriveva la mamma. Ogni tanto confondevamo la quantità di segale col pane bianco, ma la maggior parte delle volte ce la cavavamo alla grande.

Poi salutavamo i guardiani, con la loro divisa blu jeans, e schizzavamo a casa veloci come il vento, perché se diventa buio e vivi in una valle silenziosa e ricoperta di boschi, non è che sia proprio una figata.

Non era come vivere in alpeggio, quello no. Non avevamo bestie, solo qualche gallina e dei tacchini che il papà comprava alla fiera di san Gervasio, e gli scoiattoli che facevano la tana sugli alberi vicini alla casa. 

Eravamo fondamentalmente dei bambini molto soli, ci dovevamo bastare a vicenda.

Ho letto vagonate di libri, al rifugio. Mi imboscavo, letteralmente, e invece di asciugare le posate aprivo un libro. Le parole e le vicende che sbucavano dalle pagine stampate mi prendevano per mano, e per un po’ ero a spasso per il mondo. Ho fatto anche centinaia di migliaia di disegni, consumando le matite colorate del mio papà. 

A ripensarci adesso, in quelle lunghe estati ho gettato in maniera inconsapevole le basi di quello che sono ora. Me ne stavo ore china su uno dei tavoli in bar, la gente arrivava, chiedeva cose, mi guardava, andava in bagno, consumava un caffè, osservava le foto appese alle pareti, strillava di spavento quando vedeva la vipera sotto spirito nel caso di vetro. Io li osservavo a mia volta,quei turisti dall’aria svagata, e li invidiavo un pochino, perché il pomeriggio alle cinque sarebbero scesi, facendo ritorno a Bormio o a Livigno, e io invece rimanevo lì. 

Ero sempre affamata di gente, perché le persone erano macchie di colore nelle mie giornate: magari ci parlavo solo una decina di minuti, tra un caffè e una cioccolata, mi raccontavano da dove venivano, cosa facevano, mi dicevano che meraviglia starsene qua, ma che davvero voi vivete qui, ma che fortuna incredibile, l’anno prossimo ci porto pure mio nipote, che l’aria buona gli fa solo bene. Io ci credevo davvero, che l’anno dopo avrei avuto degli amici di città con cui fare fantastiche avventure. Poi ho smesso di crederci, perché ho capito che i ragazzini in genere non passano le vacanze a duemila metri, solo qualche gitarella e poi giù, in paese. Ci sono rimasta male, all’inizio, e ho cominciato a pensare che la mia vita sarebbe stata sempre lì, bloccata, a sognare altro. 

Poi sono cresciuta.

Stagione dopo stagione, mi sono accorta che la vita del rifugio, con la mudéda e tutto il resto, alla fine mi è entrata sottopelle. Gli amici sono arrivati comunque, distanza o no.

Alla fine ho lasciato il rifugio, anche io. 

Sono volata via.

Ci torno ancora, ma con la valigia leggera e il cuore pesante.

Posso solo essere infinitamente grata ai miei per aver fatto certe scelte.

Di qualcosa si deve pur campare, e loro hanno scelto il rifugio. Dimmi te che fortuna sfacciata ho avuto.

Anche io, forse, un giorno, lo sceglierò, di nuovo. 

E se davvero lo farò, sarà con la piena consapevolezza che è una scelta difficile, perché vivere la montagna in questa maniera è una sfida e, soprattutto, una rinuncia ad altro.

Ma quello che poi ti torna indietro non ha prezzo.

Ve lo posso assicurare. 

storia di un ragazzo troppo bravo a sciare


Lo scorso gennaio, a ridosso dell’anniversario di Nikolajewka, mi sono trovata a ripensare alla storia del soldato Alessio Cirillo Martinelli.
Fratello di mio nonno, il suo nome compare spesso nei racconti di famiglia, sempre avvolto da un fazzoletto di amarezza. Non avevo mai approfondito i dettagli, sapevo solo che era un ragazzo diligente e sportivo e che l’inverno russo del 1943 lo aveva inghiottito, insieme a moltissimi altri.
Ricordo che nel 1999 giunse a mio nonno un documento in cui, con poche righe asciutte, si riferiva l’accertamento di morte del soldato Martinelli Alessio Cirillo in data 7 febbraio 1943, presso il
campo di prigionia n. 56 Uciostoje, nella regione di Tambov, per cause sconosciute.
Mio nonno sbatté il foglio sul tavolo e non disse più nulla.
Morì nel 2008, e mai una volta gli domandai qualcosa sulla guerra, sul fratello, sulle sue disavventure. E dire che era un chiacchierone. Non con me, a quanto pare.


Per fortuna, mio padre era molto più in confidenza e meno in soggezione; nel corso degli anni ha
raccolto molti aneddoti e ricordi legati a quello zio che non aveva mai conosciuto. Sapevo che aveva una foto, gliela chiesi, e mi appuntai diligentemente le cose che sapeva, mettendo ordine nella
mia personale e confusa idea di Campagna di Russia.

Cercai di ricostruire la storia triste di un ragazzo che amava sciare, e i motivi che lo spinsero ad arruolarsi in una missione disgraziata, lasciandoci le penne.
Come, quando e soprattutto perché sono domande a cui ho, forse, trovato risposta.


La casa in cui nacquero mio nonno e Alessio era grande e in muratura. Fu costruita da tre fratelli, e in tre parti uguali spartita: era la casa dei Martinelli “Plat”, a Pecè di Pedenosso; nel giro di quarant’anni, si riempì per poi svuotarsi di vita, come spesso accade.
Tra il 1914 e il 1918, nei tre appartamenti della casa nacquero parecchi bambini: mio nonno Piero, nato nel 1914, lo stesso giorno in cui l’arciduca austriaco fu assassinato; suo fratello Alessio Cirillo nel luglio
del 1916, il cugino Domenico, uno dei numerosi figli di Costante, nel 1915, e Massimo, figlio di Giuseppe, nel 1918.
A leggere ora gli anni di nascita di questi bambini, si può già indovinare il loro destino. Cresciuti tra le montagne dell’Alta Valle, tra mucche da curare e patate da coltivare, verso la metà degli anni Trenta fecero la visita militare e via, tutti arruolati nell’esercito, tutti alpini.


Sin da giovanissimo Alessio si distinse come atleta: capelli nerissimi sulla fronte bassa, sguardo deciso e gambe robuste, si muoveva agile sugli sci. Vinse qualche gara, le medaglie al collo lo rendevano gagliardo e orgoglioso. Nel 1937 venne avviato nel Battaglione Duca degli Abruzzi,
presso la prestigiosa Scuola Centrale Alpinismo ad Aosta, dove rimase fino all’estate del 1938. Lì ricevette un addestramento specifico per imparare a muoversi e a combattere in alta quota e in situazioni estreme.


Dopo il congedo visse un anno in relativa tranquillità, di nuovo con il fratello e i cugini, di nuovo a Pedenosso, tutti insieme, come nel periodo dell’adolescenza. Di nuovo le mucche da curare, i prati da sfalciare, il contrabbando, la caccia, la fatica di stare in un mondo che velocemente si precipitava in guerra.
Mio nonno era inquieto, aveva fatto anche lui il militare, la sua carriera non era stata certo fulgida come quella del fratello. Piero non amava le armi, se non quelle che gli occorrevano per cacciare.
Domenico e Massimo erano forse più rassegnati, consapevoli che sarebbe stato difficile sfuggire all’appello delle armi: doveva essere nell’aria, come un cattivo odore. E infatti.


Alessio fu richiamato alla fine di agosto del 1939, appena finito di tagliare il fieno a Fraele.
Con il pedale dell’acceleratore a tavoletta, la macchina dell’Esercito era su di giri: nel 1940 venne formata una squadra di élite, il Battaglione sciatori Monte Cervino, composta da circa 300 uomini esperti della montagna, veloci e resistenti. Ai soldati fu dato il migliore equipaggiamento dell’epoca, sci Persenico, scarponi con suola in Vibram e una tuta bianca per meglio mimetizzarsi nella neve.
Una sciccheria.
Alessio fu scelto per essere uno di loro.

Non è chiaro se fu lui a fare domanda o se venne arruolato d’ufficio, ma in fondo poco importa: in un’epoca in cui essere militare e sportivo era sinonimo di quasi divinità, ricoperta di onori e gloria, ci si poteva far convincere facilmente, soprattutto quando l’alternativa era fare il pastore o il contrabbandiere sulle cime sperdute dell’Alta Valle.
Il 12 novembre 1940 si imbarcò a Brindisi alla volta di Durazzo, su un piroscafo veloce che in un giorno poteva mangiarsi l’Adriatico.
L’Albania si rivelò aspra e crudele, più brulla delle montagne di casa. Ben presto fu chiaro che l’allenamento non bastava a salvarsi la pelle, e che l’equipaggiamento non era sufficiente contro le mitragliatrici. Il Battaglione venne decimato: partiti in 340, tornarono in 60 uomini. Alessio fu uno di loro, scampò a parecchie imboscate e fece ritorno in Italia, magrissimo e mangiato dai pidocchi, ma vivo.


I documenti dicono che passò a casa trentaquattro giorni in licenza, dal 24 luglio al 27 agosto 1941.
Immagino che in quel mese avrà mangiato, si sarà ripulito per bene, e avrà falciato il fieno. In uno di quei giorni d’estate, mio nonno lo prese in un angolo e lo fissò negli occhi.
-Non tornare nell’esercito, ti rimandano via, si parla della Russia. Hai visto cos’è la guerra, sei scampato per un pelo. Non andare. Ti rompo un braccio, così non sanno che farsene di te, e tu ti salvi. –
Questo disse il fratello maggiore ad Alessio, giovane sportivo veloce come una lepre.
Ma lui non voleva il braccio rotto.
Disse -No, io vado. – e partì.


Il 16 aprile 1942 passò la frontiera russa, insieme al suo Battaglione, chiamato per dare man forte contro i famigerati russi. Con lui c’erano altri ragazzi dell’Alta Valle che conosceva bene: il compaesano Vittorio Bradanini, classe 1919, e il coetaneo Pierino Sertorelli di Bormio.
Da qualche parte nella steppa c’erano anche i suoi cugini Massimo e Domenico, alpini nel Tridentina. Chissà se si incontrarono, almeno una volta.
Piero no, non era in Russia, ma questa è tutta un’altra storia.

Un giovane Vittorio Bradanini (sulla dx) in attesa di gareggiare sugli sci.


Durante l’estate del ’42 Alessio scrisse qualche cartolina a casa, dicendo di stare bene. Ad un certo punto riferì di trovarsi in Ucraina ad aiutare i contadini a falciare il grano: rispetto al fieno rado delle Alpi dovette sembrargli oro.
Poi arrivò l’autunno, e l’inverno. Arrivò Natale, e scoppiò l’inferno.


I soldati del Battaglion Cervino erano veloci come fantasmi, avvolti nelle tute candide: “Satanas Bielij”, diavoli bianchi, così li chiamavano i russi, con un misto di ammirazione e paura. Si muovevano fra i vari squadroni nascondendosi nella neve per consegnare messaggi, comunicazioni,
strategie. Ma, nel gennaio del 1943, anche loro vennero infine disfatti.


Alessio, Vittorio e Pierino erano commilitoni e compaesani, ritrovatisi a migliaia di chilometri di distanza da casa, nel bel mezzo del caos. Decisero di rimanere insieme e di provare a tornare in
Italia: chissà dove e come, recuperarono una capra, la legarono a una corda e se la trascinarono dietro, spostandosi di villaggio in villaggio, insieme ad altri disperati, con il ghiaccio negli occhi e il
cielo spietato sopra la testa.
Secondo i documenti, Alessio venne visto vivo per l’ultima volta il 19 gennaio. Fu Vittorio, una volta tornato a casa, a raccontare a mio nonno che cosa era successo: stavano rifugiati in un’isba,
cercando di tenersi al caldo, quando erano cominciati gli spari. I russi rastrellavano il villaggio, li stavano cercando, era buio pesto e il panico riempì le loro ossa: Vittorio e Pierino riuscirono a scappare all’imboscata scivolando fuori da una finestrella. Corsero nella notte gelida, arrancando nella neve e nascondendosi agli spari. La mattina seguente, quando i russi se ne furono andati, si ritrovarono lividi e sopravvissuti.
Di Alessio, e della capra, non c’era più traccia.
Probabilmente fu ferito. Come dicono le carte, fu portato in un campo di prigionia, dove morì il 7 febbraio. Il luogo di sepoltura è ignoto.
E i suoi cugini?

Alessio Cirillo nella foto posta sulla lapide commemorativa presso la chiesa di Pedenosso in Valdidentro


A termine della guerra, giunse nella grande casa di Pecè un cappellano. Con sé aveva la piastrina e il portafoglio di Domenico: lo aveva assistito nelle sue ultime dolorose ore in un campo di prigionia siberiano, dove era stato deportato. I dettagli della sua morte li tralascio, per pudore.

Domenico Martinelli


Massimo partecipò alla battaglia di Nikolajewka e sopravvisse. Tornò a casa e non parlò mai volentieri di quello che gli accadde, anche se fino alla fine partecipò ai raduni dei reduci. Il suo cappello da alpino lo conserva con cura mio papà, insieme all’attestato di merito; è appeso ad una parete, mi capita di osservarlo spesso.


Anche Vittorio e Pierino, le ultime persone che videro vivo Alessio, tornarono a casa e morirono molti, molti anni dopo. Ciò che videro in quei mesi se lo portarono dentro, come uno squarcio che
non poteva essere ricucito.
Mio nonno, che conosceva bene Vittorio, diceva che dopo la Russia aveva cominciato a vivere come se nulla potesse più davvero toccarlo o danneggiarlo.
Forse, era proprio così.
Questa è la storia di un ragazzo che era troppo bravo a sciare.
Questa è la storia di una grande casa che perse in modo orribile due figli.
Questa è la Storia.
So che ce ne sono milioni di simili, tutte tristi e dolorose da raccontare e ascoltare. Ma è comunque giusto farlo, per non dimenticare Alessio e chi, come lui, è rimasto giovane per sempre, nel gelo della steppa.

Luoghi vecchi, muri neri.

C’è un posto, poco lontano da casa, che amo particolarmente.
Si tratta di un rudere, un muro di pietre tenuto in piedi per miracolo, che quasi sembra appoggiato lì per caso, appena sotto il sentiero. Il bosco è fitto, la luce che vi filtra è poca, il muschio cresce fitto e grasso sui sassi.
Ci porto ogni tanto i bambini: ci sediamo sulle pietre che probabilmente componevano il muro della cantina e, mentre mangiamo qualcosa di merenda, ci immaginiamo come poteva essere la casa, quando ancora qualcuno ci abitava.
Il focolare c’è ancora, nell’angolo, i sassi sono neri, impregnati dal fumo e dalle tracce delle fiamme, come ancora c’è il braccio bucato di legno della cigögna, dove si appendeva la caldaia per preparare il formaggio.
Sopra, l’occhio vuoto di una finestra.
Ci immaginiamo la stalla, la cucina con le poche stoviglie impilate sugli scaffali, il pavimento sconnesso, la porta di legno scheggiato che cigolava.
Non doveva essere un posto molto strategico, così in piedi e circondato dalle alte piante, però era un bel posto.
È ancora un bel posto.
Ogni anno trovo il muro più storto, più vuoto: pian piano la calce si polverizza e i sassi rotolano sulla radura. Il buco sta diventando sempre più grande.
Ai bambini ho raccontato che ogni tanto, forse, qualche fata o streghetta del bosco viene qui a riposarsi.
Quando non sarà altro che un cumulo di pietre, le fate andranno da qualche altra parte.

Ci sono centinaia di questi luoghi abbandonati, fra le nostre montagne.
Luoghi che, a osservarli bene, ti fanno emozionare, a pensare a quante vite hanno visto passare, quante storie, quante parole sono state sussurrate o gridate fra le mura diroccate.
La terra è ricca di ricordi.
La terra è vecchia, e incredibilmente bella.

Ciglia di pietra

La prima volta che ho visitato il cimitero monumentale di Staglieno, a Genova, avevo diciassette anni. Ho scattato un sacco di foto, con una macchinetta che mi aveva regalato mia madre l’inverno precedente, e ho fatto sviluppare il rullino in toni seppia su carta satinata; ho conservato quelle foto in un album dalla copertina grigia, che mi ha accompagnato nei traslochi della vita e che ora giace nella scatola dei ricordi, insieme a poche altre cose.

La ragazza che mi accompagnò allora era una profonda conoscitrice di quel luogo, e devo a lei ogni passo, ogni aneddoto legato a queste statue. Mi accompagnò paziente in tutti gli angoli, nelle gallerie e fra le tombe sparse, facendomi notare tutti i particolari, le pieghe dei vestiti, le rughe scolpite nel marmo, i dettagli simbolici e le coincidenze raccontate nelle lastre consunte.

Non ho mai dimenticato quel pomeriggio e la meraviglia di quello che vidi.

Ho visitato Genova altre volte, camminando per i suoi vicoli e annusando i suoi aromi contrastanti, ma a Staglieno non ci sono tornata più.

Oggi mio marito, dopo un’estenuante visita all’acquario, con i bambini che dormivano in auto, mi ha lasciato davanti ai suoi cancelli. “Hai poco più di un’ora, prima che chiuda. Vai.” mi ha detto, senza troppi preamboli e ricami, e aveva un’espressione di dolcezza dipinta negli occhi, perché sapeva che mi stava facendo un regalo bellissimo.

Mi sono incamminata veloce nei porticati silenziosi, era tardo pomeriggio e non c’era nessuno; i passi facevano traballare le lastre di marmo sconnesse, mi spiaceva quasi calpestare tutti quei nomi, resi quasi illeggibili dal tempo. Ho incontrato solo due signori di una certa età, con mascherina e un mazzo di fiori in mano, che camminavano in silenzio senza guardarsi troppo intorno: sapevano già dove andare, la bellezza di quel luogo non poteva distrarli dalla meta.

Il cimitero è una città, mi disse la guida di tanto tempo fa. I suoi abitanti dormono, ma quasi li puoi sentire, puoi vedere i loro volti ritratti in pose eterne, le espressioni, le pieghe dei vestiti che la polvere ha reso di velluto. Le gallerie sono alte come case e i loculi arrivano fino al soffitto; avelli scoperchiati senza più alcun nome sembrano guardarti come bocche senza denti, e tu cammini più veloce, un po’ inquieta perché ok, sono morti e non ti fanno niente, però non ti piace essere sola, non proprio.

In ogni città che ho visitato, non ho mancato il cimitero. Ho curiosato fra le lapidi, ho letto centinaia di nomi, immaginato le storie, commuovendomi ogni volta. Ho appoggiato una mano sulla lastra che copre Modigliani e il suo amore, mi sono quasi persa nel Verano alla luce di un tramonto di fine inverno, ho sospirato nel Monumentale di Milano. Ma come Staglieno, mai più.

Perché solo lì ho visto le ciglia di pietra, e le lacrime di pioggia che ne definiscono i dettagli.

Dopo un’ora esatta, sono emersa da quel mondo sospeso di polvere e silenzio. Roby e i bambini addormentati mi aspettavano sotto un albero, e io mi sono sentita stracolma di vita, assetata di sole.

Marea

Ehi Samy, volevo dirti grazie.

Grazie per avermi accolto correndo, quando sono tornata a casa oggi pomeriggio. Per avermi dato un bacino sbauscioso sul naso e per avermi messo i tuoi stivaletti di gomma in mano, guardandomi fisso con quei tuoi occhi grandi. Avevi quell’espressione decisa di chi non ammette repliche, mentre puntavi col ditino la porta. E io no, dai, sono stanca, devo preparare la cena, il prato è brombo di pioggia.

Ma tu hai insistito come solo voi bimbi sapete fare, dai dai dai, mamma fuori, dai.

Grazie Samy, per avermi costretto a infilarmi di nuovo le scarpe, e la giacca dell’autunno, per uscire a fare quattro passi con te.

Il fiume era così gonfio che il suono del suo scorrere lo sentivamo senza vederlo, l’aria è cambiata, la pioggia ha lavato via la polvere calda dell’estate.

Abbiamo camminato fino al ponte, e in silenzio siamo rimasti a guardare il gorgo dell’acqua marrone che furiosa portava via tronchi e rami.

Abbiamo raccolto le piccole pozze di pioggia accoccolate fra le foglie dell’alchemilla, spruzzandocela in faccia fra mille risate.

Ci siamo tenuti per mano mentre il cielo si rischiarava nel tramonto.

Ho pensato che oramai è andata anche quest’anno, agosto domani muore e con lui la febbre che ci scorre nel sangue di lavoratori indefessi.

Ho pensato alla gente che sta tornando a casa, come una marea che ci ha sommerso e ora ci abbandona, lasciando tracce di ricordi e stanchezza e, sì, anche soddisfazione, dietro di sé.

Ho pensato a noi che rimaniamo qui, a respirare quest’aria lucida di pioggia, e alla fortuna che abbiamo.

Poi siamo rientrati, che avevi i pantaloni fradici e le guance belle rosse e fredde.

Grazie, Sam.

Quello che mi manca

Oggi ero in macchina, la musica un po’ a palla e la strada sgombra davanti, e ho iniziato a pensare a tutte quelle cose che mi mancano, a tutto ciò di cui faccio a meno da molto, troppo tempo, alle sensazioni situazioni e ai luoghi il cui ricordo mi accompagna costantemente nella routine delle giornate.

Camminare a lungo fra le vie di una città vecchia come il mondo.

Salire su un treno preso al volo e cercare un posto a sedere vicino al finestrino.

Stare come sardine in piedi in mezzo a moltitudini ad un concerto, con le scarpe belle allacciate per non rischiare di perderle nella mischia e la musica che ti batte direttamente nel petto.

Affondare le dita dei piedi nel bagnasciuga di una spiaggia.

Bere pigramente un aperitivo con addosso un vestito leggero, guardando il cielo che si arrossa.

Abbracciare forte.

Mandare a fanculo qualcuno senza troppe remore.

Guardare la schiena di mia madre, piccola e veloce, mentre cucina la cena.

Dormire in tenda e sentire la pioggia che batte sulla sua superficie.

Mangiare un’albicocca dolcissima con gli occhi chiusi.

Guardare i trailer dei film in uscita al cinema, mentre sei al cinema, al buio, in attesa di guardare il film che aspetti da mesi, e sognare il momento di poterli guardare, quei film che ti stanno mostrando in pillole dolci di popcorn.

Prendere la metropolitana e guardare chi sale con te.

Dormire fino a mezzogiorno, fare colazione o pranzo, e poi dormire tutto il pomeriggio, mentre fuori piove.

Non dormire per un notte intera per starsene a parlare, aspettando che spunti il sole.

Scoprire che in quel museo c’è un qualcosa che non ti aspettavi, ma che sembra davvero aspettarti da una vita.

Sentire l’odore dell’Asia, il vento dell’oceano, il sapore dell’Europa.

E molto altro.

Poi ho fatto una curva, ho quasi inchiodato, ho accostato con le quattro frecce accese in uno spiazzo. Ho svegliato i bambini con una carezza e insieme abbiamo attraversato la strada deserta.

Foto, risa, ooooh.

Di colpo, tutto quanto mi è mancato un po’ meno.

I libri che ti fanno vivere.

Io ci ho provato. Davvero.

Dai, un libro al giorno per sette giorni. Ma è dura, durissima. Sette giorni sono pochi, come faccio? Cioè, scelgo a caso? Estraggo a sorte dal mazzo, con un occhio chiuso a metà?

E poi. Niente commenti, solo la copertina. Figo, penso. Così non si influenza nessuno, ognuno trae le proprie conclusioni, grazie per lo stuzzicore, mi faccio un’idea ma non troppo.

Ok, ma io non ce la posso fare così. Voglio dire, riesco ad essere logorroica anche quando scrivo di pesci rossi, anatre sperdute e cassonetti dell’immondizia: siete davvero certi che possa resistere alla tentazione di commentare qualcosa che mi ha fatto palpitare forte il cuore? No, dai.

Come posso, ad esempio, pubblicare la copertina consumata de Il maestro e Margherita, senza raccontarvi che quando lo aprii la prima volta ero in treno, circondata dalla pianura padana, e poi per tre ore non fui più lì, ma in un universo scoppiettante e meraviglioso che mi lasciò senza fiato?

E Barnum, raccolta 1 e 2, sottolineate fino a trasformare le pagine di carta grigiastra in piccole autostrade per formiche diligenti. Potrei recitare interi pezzi a memoria,  facendo una lista delle persone a cui ho dedicato quelle pagine.

Bill Bryson, grazie di cuore, il tuo giro per l’Europa viene periodicamente rispolverato per tirarmi su di morale, e ogni volta funzioni che Xanax levati proprio. Ken Follett e la sua macchina del tempo, declinato nelle sfumature dei secoli, migliaia di pagine che mi hanno trascinato a spasso per il mondo.

Signor Eco, quando sei morto ho pianto, anche se (è dura confessarlo) i tuoi romanzi mi sono più indigesti di un piatto di pizzoccheri freddi. In compenso, tutto quello che hai scritto in saggistica mi trapana la testa ogni volta. Non per niente, “Non sperate di liberarvi dei libri” è nella classifica del mio comodino da anni. Non riesco proprio a metterlo via, ecco.

La valle dell’Eden mi ha fatto scoprire la cattiveria allo stato puro, La casa degli spiriti mi ha sconvolto e ammaliato come un incantesimo. Vita e La lunga attesa dell’angelo mi hanno fatto scattare un interruttore dentro, che da allora non si è più spento: non solo sono scritti come dei dipinti, ma raccontano storie che hanno il dovere di essere raccontate. E come le racconta lei, non c’è paragone.

Mi sono sbronzata di caldo con Cent’anni di solitudine, e rattrappita di freddo con Endurance. I quattro libri dell’Amica geniale hanno consumato le mie notti, smangiucchiato le pause pranzo, trapassato i pomeriggi. E dire che non mi ispirava per niente, perché le copertine sono orrende. Quando li ho terminati, ho letteralmente scagliato a terra il libro.

Ho pianto incazzata con quella deficiente di Emma, perché un uomo buono non si può davvero trattare così. Mentre le paturnie di Zeno mi hanno fatto ridere tantissimo, in barba al tizio serio che sedeva davanti nell’intercity Milano Genova. Con Open ho rischiato di iniziare a giocare a tennis, perdincibacco, e Donna imperiale della Buck mi ha regalato un gusto del dettaglio che è duro a morire. Uccelli di rovo l’ho letto tre volte, a dodici, ventidue e trentadue anni. Ogni volta è stato diverso, il che è meraviglioso.

Armi, acciaio e malattie mi ha letteralmente salvato dalla depressione più nera, in un periodo tosto. A mia madre, lettrice oculata e consigliera di una vita, avevano appena diagnosticato metastasi alle ossa. Pensavo di impazzire dal dolore. Leggere quel libro mi ha dato una visione della vita umana molto più pragmatica di quella che ero abituata ad avere, dandomi un nuovo paio di lenti attraverso cui ancora oggi riesco a vedere e a non soccombere nell’ansia.

Tralascio i dettagli su Gaiman, Stephen King e LeGuin. Sono delle querce su cui amo rifugiarmi, quando le faccende si fanno pesanti.

Non nomino nessun libro della mia infanzia, o dell’infanzia dei miei figli, perché prima o poi ci farò un tema dedicato.

Quindi

grazie a tutte le persone che hanno pensato a me nella sfida dei sette libri in sette giorni. È bellissimo vedere i gusti degli altri, indovinarne il carattere, ispirarsi o, anche, sorriderci su. Scusate se io non riesco a scegliere, né a fare una lista sensata e ordinata, non ce la faccio proprio.

La cosa che mi manda completamente fuori di testa è che io, tanti libri, NON ME LI RICORDO. Anche quelli belli belli. Quando mi chiedono un consiglio, vado in sbattimento. Ho bisogno di tempo, di concentrazione. Perché consigliare un libro non è mica uno scherzo.

Un libro ti cambia la vita.

Tanti libri, te la creano.

Pazienza!

Il pino mugo (pinus mugo) non è una pianta molto popolare. Ha un nome buffo, decisamente poco nobile, che ricorda funghi, sottoboschi, ombra, con quella U e la O vicine vicine. In dialetto è muf, dal suono ancora più comico e quasi spregevole. Il suo aspetto è quasi insignificante, tutto storto e poco imponente, con gli aghi scuri disordinati e pungenti. Cresce basso e allunga le radici storte fra i sentieri, fra le rocce e sui pendii sassosi. Il suo legno è pieno di nodi e resinoso, quando lo bruci scalda poco e dà un fumo grigio, che riempie le stufe di fuliggine densa. Nulla a che vedere con il solido abete, il mutevole larice, la nobile quercia, l’elegante e raffinato salice.

Sul pino mugo crescono gemme profumate che maturano violacee con il caldo dell’estate. Quando le raccogli, strappandole ai rami, ti pungono cattive, lasciando tracce collose di resina che rimangono a lungo sulle dita.

Quando muore, i suoi aghi rossi e arancioni diventano i mattoni dei formicai.

Pensavo a questa pianta, oggi.

Fino a tre giorni fa, questo mugo era completamente coperto da tonnellate di neve compatta. È stato sepolto per sei lunghissimi mesi, chiuso da una massa gelida e pesante, senza mai vedere un raggio di sole.

Pensavo fosse morto, finito.

E invece. Eccolo qui, tutto storto e ancora più piegato di prima, ma vivo. I suoi rami puntano in alto, dondolando nel vento, e già si riescono a scorgere le nuove piccole fresche gemme.

A luglio le raccoglierò, pungendomi le dita, e le metterò in un barattolo di vetro, ricoprendole di zucchero. Lo sciroppo lo darò ai miei bimbi il prossimo inverno, quando arriverà la tosse.

Ecco, l’augurio che posso fare a tutti è di essere, almeno un pochino, simili al mugo.

Semplici, magari storti, magari apparentemente poco utili, ma incredibilmente resistenti, affamati di sole e di aria. E pazienti.

Funamboli

È una magnifica mattina, oggi.

Il sole taglia le finestre e scalda il pavimento di legno, è domenica, i bambini ancora dormono. Li porterò a spasso, stamattina, al diavolo le pulizie, l’ordine, i panni da piegare e riporre nell’armadio. Cammineremo sulla neve scrocchiolosa, magari in mezzo agli alberi, tirando la slitta e ridendo allegri.

Per un attimo, faremo finta di niente, come se fosse tutto normale. E invece di normale non c’è proprio niente.

È domenica mattina, otto marzo duemila venti, mi sento piena di energia, eppure così svuotata.

Potrei scrivere qualcosa sulle donne, avrei scatervate di frasi da mettere insieme, provocazioni, emozioni, ricordi. Ma non me la sento. Non so da dove cominciare.

Abbiamo tutti voglia di tornare alla normalità, alle solite cose, allo stress del lavoro e alle chiacchere banali. Vorrei parlare del tempo, del freddo, delle vacanze, dei soldi, del viaggio che vorrei fare, del laboratorio da organizzare.

Ma, allo stesso tempo, non riesco a fare finta di niente. Quello che sta succedendo è troppo grande, troppo serio, troppo travolgente per ignorarlo.

Non riesco a capire dove andare a parare. Ogni santo giorno è un’altalena di notizie e opinioni che cozzano l’una con l’altra, chi condivide ogni starnuto e chi tace, muto. Chi sdrammatizza e chi fa lo struzzo, chi caccia la testa nella neve e chi allegramente fa finta di nulla.

Ci sta tutto, e non ci sta niente. Siamo tutti confusi e spaventati da ciò che verrà.

Di una cosa sola sono sicura. Prima o poi, finirà.

E allora sarà fighissimo. Una sbornia di allegria e felicità, con un enorme, travolgente sospiro di sollievo che riempirà il cielo.

È già successo, centinaia di volte, e succederà ancora.

Nel frattempo, aspettiamo, aspetto. Adesso vado a fare la colazione ai bambini, poi li infilo nella tuta e usciamo a fare una passeggiata.

Siamo funamboli, in bilico. Affrontiamo un passo alla volta, respirando con calma, senza agitazione. Più rimaniamo calmi, e prima arriveremo dall’altra parte. Saremo diversi, ma ci saremo.