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Luoghi vecchi, muri neri.

C’è un posto, poco lontano da casa, che amo particolarmente.
Si tratta di un rudere, un muro di pietre tenuto in piedi per miracolo, che quasi sembra appoggiato lì per caso, appena sotto il sentiero. Il bosco è fitto, la luce che vi filtra è poca, il muschio cresce fitto e grasso sui sassi.
Ci porto ogni tanto i bambini: ci sediamo sulle pietre che probabilmente componevano il muro della cantina e, mentre mangiamo qualcosa di merenda, ci immaginiamo come poteva essere la casa, quando ancora qualcuno ci abitava.
Il focolare c’è ancora, nell’angolo, i sassi sono neri, impregnati dal fumo e dalle tracce delle fiamme, come ancora c’è il braccio bucato di legno della cigögna, dove si appendeva la caldaia per preparare il formaggio.
Sopra, l’occhio vuoto di una finestra.
Ci immaginiamo la stalla, la cucina con le poche stoviglie impilate sugli scaffali, il pavimento sconnesso, la porta di legno scheggiato che cigolava.
Non doveva essere un posto molto strategico, così in piedi e circondato dalle alte piante, però era un bel posto.
È ancora un bel posto.
Ogni anno trovo il muro più storto, più vuoto: pian piano la calce si polverizza e i sassi rotolano sulla radura. Il buco sta diventando sempre più grande.
Ai bambini ho raccontato che ogni tanto, forse, qualche fata o streghetta del bosco viene qui a riposarsi.
Quando non sarà altro che un cumulo di pietre, le fate andranno da qualche altra parte.

Ci sono centinaia di questi luoghi abbandonati, fra le nostre montagne.
Luoghi che, a osservarli bene, ti fanno emozionare, a pensare a quante vite hanno visto passare, quante storie, quante parole sono state sussurrate o gridate fra le mura diroccate.
La terra è ricca di ricordi.
La terra è vecchia, e incredibilmente bella.

Quello che mi manca

Oggi ero in macchina, la musica un po’ a palla e la strada sgombra davanti, e ho iniziato a pensare a tutte quelle cose che mi mancano, a tutto ciò di cui faccio a meno da molto, troppo tempo, alle sensazioni situazioni e ai luoghi il cui ricordo mi accompagna costantemente nella routine delle giornate.

Camminare a lungo fra le vie di una città vecchia come il mondo.

Salire su un treno preso al volo e cercare un posto a sedere vicino al finestrino.

Stare come sardine in piedi in mezzo a moltitudini ad un concerto, con le scarpe belle allacciate per non rischiare di perderle nella mischia e la musica che ti batte direttamente nel petto.

Affondare le dita dei piedi nel bagnasciuga di una spiaggia.

Bere pigramente un aperitivo con addosso un vestito leggero, guardando il cielo che si arrossa.

Abbracciare forte.

Mandare a fanculo qualcuno senza troppe remore.

Guardare la schiena di mia madre, piccola e veloce, mentre cucina la cena.

Dormire in tenda e sentire la pioggia che batte sulla sua superficie.

Mangiare un’albicocca dolcissima con gli occhi chiusi.

Guardare i trailer dei film in uscita al cinema, mentre sei al cinema, al buio, in attesa di guardare il film che aspetti da mesi, e sognare il momento di poterli guardare, quei film che ti stanno mostrando in pillole dolci di popcorn.

Prendere la metropolitana e guardare chi sale con te.

Dormire fino a mezzogiorno, fare colazione o pranzo, e poi dormire tutto il pomeriggio, mentre fuori piove.

Non dormire per un notte intera per starsene a parlare, aspettando che spunti il sole.

Scoprire che in quel museo c’è un qualcosa che non ti aspettavi, ma che sembra davvero aspettarti da una vita.

Sentire l’odore dell’Asia, il vento dell’oceano, il sapore dell’Europa.

E molto altro.

Poi ho fatto una curva, ho quasi inchiodato, ho accostato con le quattro frecce accese in uno spiazzo. Ho svegliato i bambini con una carezza e insieme abbiamo attraversato la strada deserta.

Foto, risa, ooooh.

Di colpo, tutto quanto mi è mancato un po’ meno.

Pazienza!

Il pino mugo (pinus mugo) non è una pianta molto popolare. Ha un nome buffo, decisamente poco nobile, che ricorda funghi, sottoboschi, ombra, con quella U e la O vicine vicine. In dialetto è muf, dal suono ancora più comico e quasi spregevole. Il suo aspetto è quasi insignificante, tutto storto e poco imponente, con gli aghi scuri disordinati e pungenti. Cresce basso e allunga le radici storte fra i sentieri, fra le rocce e sui pendii sassosi. Il suo legno è pieno di nodi e resinoso, quando lo bruci scalda poco e dà un fumo grigio, che riempie le stufe di fuliggine densa. Nulla a che vedere con il solido abete, il mutevole larice, la nobile quercia, l’elegante e raffinato salice.

Sul pino mugo crescono gemme profumate che maturano violacee con il caldo dell’estate. Quando le raccogli, strappandole ai rami, ti pungono cattive, lasciando tracce collose di resina che rimangono a lungo sulle dita.

Quando muore, i suoi aghi rossi e arancioni diventano i mattoni dei formicai.

Pensavo a questa pianta, oggi.

Fino a tre giorni fa, questo mugo era completamente coperto da tonnellate di neve compatta. È stato sepolto per sei lunghissimi mesi, chiuso da una massa gelida e pesante, senza mai vedere un raggio di sole.

Pensavo fosse morto, finito.

E invece. Eccolo qui, tutto storto e ancora più piegato di prima, ma vivo. I suoi rami puntano in alto, dondolando nel vento, e già si riescono a scorgere le nuove piccole fresche gemme.

A luglio le raccoglierò, pungendomi le dita, e le metterò in un barattolo di vetro, ricoprendole di zucchero. Lo sciroppo lo darò ai miei bimbi il prossimo inverno, quando arriverà la tosse.

Ecco, l’augurio che posso fare a tutti è di essere, almeno un pochino, simili al mugo.

Semplici, magari storti, magari apparentemente poco utili, ma incredibilmente resistenti, affamati di sole e di aria. E pazienti.

Preghiera

Io non lo so se ci credo o no, in te.

Ci sono momenti in cui mi fai arrabbiare tantissimo, di quella rabbia di bambini con i pugni stretti sulle ginocchia e gli occhi che fanno male.

Ci sono volte in cui mi fai paura, perché sei lontano e grande e sembri impazzito, come un vecchio ubriaco che borbotta da solo guardando una pozzanghera.

E in quella pozzanghera ci siamo noi.

Ogni tanto mi pare di intravederti, di sentire una voce conosciuta, mi giro e ti cerco, ma sei già andato via.

Se davvero un giorno ti incontrassi, vorrei solo farti una domanda, e ascoltare attenta la risposta.

Perché fai così male. Ce n’è davvero bisogno?

Ma poi, mi guardo intorno, e vedo così tanta bellezza, così tanta potenza, e leggerezza, che mi viene da sorridere.

E penso che di sicuro, se esisti davvero, da qualche parte intorno a noi, sei veramente un grande artista.

E che, come tutti gli artisti, non ti si può chiedere di più che quello che già ci dai.

Perché è già il massimo di quello che puoi.

Ai capelli di una figlia.

Da quando è nata e fino ai due anni di vita, mia figlia è stata praticamente pelata. Tutti la prendevano per un maschio, a me pareva un pulcino spiumato, con quel crapino tondo e quattro ciuffetti di paglia secca che spiovevano sulle orecchie. Il mio orgoglio materno mi spingeva a metterle vezzosi cerchietti, mollette da tortura cinese e fascette con fiori finti più grandi di lei. Niente, tutto inutile, scivolava tutto via, la testa era liscia e nuda.
Poi, all’improvviso, i capelli hanno cominciato a crescere, ciocche biondissime da Barbie California, sempre scompigliati e davanti agli occhi: era cominciato il periodo Schnauzer.
Sarà che sono figlia degli anni ’80, sarà che mia madre non andava tanto per il sottile e mi tagliava i capelli da sola, in bagno, e il risultato era immancabilmente San Francesco in versione Heidi. Sarà che quelle sue nuove ciocche dorate erano troppo belle per essere tagliate via, e che la vanità di una mamma è dura da eliminare, saranno mille cose insieme, non so.
Fatto sta che, nella sua breve esistenza, non le ho mai tagliato i capelli seriamente.
Ora li ha lunghi quasi fino alla vita e non sono più così biondi, anche se sembra che abbia immerso le punte nell’oro fuso.
Ogni sera prima di andare a dormire li spazzoliamo per dieci minuti buoni, e ogni volta è una sorpresa. Fra le ciocche troviamo i ricordi della giornata che ha vissuto: aghi di pino, coriandoli di carta, un chicco di riso, brillantini.
I suoi movimenti, le sue corse, le capriole, le sue lacrime ingarbugliano i fili sottili in tanti nodi difficili da sciogliere e dolorosi da spazzolare via.
Pettinarla è come rimettere in ordine i pensieri, lisciare un tessuto stropicciato, togliere ciò che crea confusione e dolore. Lei si lamenta, sbuffa, scappa, poi si rassegna e sopporta, sa che è una cosa necessaria, altrimenti i nodi diventeranno sempre più fitti e spessi, più incasinati e difficili da sbrogliare.
Sa che l’alternativa è la forbice.
Zac.
Ogni tanto mi viene la tentazione di farlo.
So che prima o poi cederemo alla tentazione e lo faremo. Tagliarle i capelli per semplificarci la vita, che è già complicata da sola senza pettini ed elastici di gomma.
Ma per il momento va bene così.
Perché i suoi capelli ingarbugliati sono il diario della sua vita, sempre più lontana dalla nostra, e intrecciarli prima che si addormenti, mentre fuori il vecchio giorno si fa buio, è un momento bello.
Liscio come la seta.

Il viaggio dell’acqua

C’era una volta, fra la neve bianca,

una sorgente d’acqua che mai era stanca.

Goccia dopo goccia nasceva tra i sassi

un ruscello che poi scorreva a grandi passi.

Fra rocce e boschi, cascate e poi prati

scivolava il torrente fra i sassi bagnati;

molti animali vi vivevano attorno,

ma lui fuggiva via per conoscere il mondo.

Quando arrivava in un quieto stagno

le rane e i pesci ci facevano il bagno,

ma giusto un momento, non uno di più,

poi lui gorgogliava via e andava più in giù.

Intanto cresceva, grande e largo diventava

nella pianura verde curvando si allungava.

Ecco i campi di riso, di mais, di giallo grano,

ai contadini il fiume dava una mano!

Se poi un po’ di caldo la sua acqua incontrava

una fitta foresta ai suoi fianchi si intrecciava.

Quando il sole forte lo faceva rallentare

cammelli e beduini vi si potevan dissetare.

Poi attraversava una grande e grigia città:

c’erano ponti, canali e palazzi in quantità.

Alla fine, un poco sporco, ne usciva soddisfatto:

quante cose vedeva in quel breve tratto!

Iniziava poi per il fiume l’ultimo pezzo di via:

largo e grosso si snodava, aspettando la magia.

Ecco un rumore, il vento e un odore mai sentito,

grandi gabbiani bianchi in un cielo infinito.

Finalmente al mare il nostro fiume arrivava,

pian piano si mischiavano le acque e lui si rilassava:

mille avventure ogni giorno aveva affrontato,

ora diventava nuovo, dal sapore un po’ salato.

Il futuro nostalgico

Cara Alice del 2004,
sono io, la tua versione del 2019. Tecnicamente, la versione vecchia di te che sei giovane ma vivi nel passato (e quindicifottutianni sono il passato, bella mia).
Se i miei calcoli sono esatti (non è che una già pessima intelligenza matematica migliori con l’età, veh) sei una fresca ventunenne dai capelli rosso fuoco, un piercing in mezzo agli occhi e mille speranze in tasca. Vivi in una piccola città universitaria, studi beni culturali e ogni tanto lavori in un fighissimo locale dall’odore bohemien. Come nei tuoi sogni di ragazzina. Chiaccheri, ti informi, bevi birra e sambuca e vai alle manifestazioni con l’animo pieno di idee e buoni propositi. Per te è tutto bianco o tutto nero, le sfumature ti piacciono solo nei dipinti che studi, nelle poesie che leggi, nella musica che ascolti. Non sai cosa ti aspetta il futuro, non ci pensi nemmeno.

Bene, ascoltami bene, tipetta, ho un paio di cose da raccontarti.

Riuscirai a fare l’esame di latino, davvero. Ti laurerai e farai un viaggio on the road, su una opel corsa 1200. Comincerai anche la laurea specialistica, ma tutta una serie di motivi che non sto qui ad elencarti te la faranno piantare a metà, senza troppi rimpianti. Alla fine mollerai anche Pavia, sai, anche se un pezzo di cuore lo lascerai sulle rive del Ticino. Tornerai a casa, incredibile lo so, e ne sarai davvero felice. Alcune delle persone che ti sembrano ora così essenziali sfumeranno via pian pianino, mentre altre rimarranno sempre un punto fisso. Piangerai un sacco, farai mille errori, vedrai l’oceano, ti arrampicherai sulle rocce, parlerai l’inglese (anche se non ortodosso). Incontrerai nuove persone, ti innamorerai e sì, ti sposerai pure, tu che hai ribrezzo dell’abito bianco e delle cerimonie. Sì, sarà bellissimo. Ah, avrai anche due bambini, a cui darai dei nomi dal suono dolce perché stanno bene con un cognome difficile da scrivere. E sì, sarai incasinata di brutto, ma felice.
Alla fine la tua laurea la rispolvererai dal cassetto, dopo aver fatto la cameriera, la commessa, la segretaria e la donna delle pulizie. Incredibile, vero? Ogni giorno farai qualcosa che ami, te lo garantisco, anche se è qualcosa di piccolo.

Sai Alice, il tuo futuro, ossia il mio presente, è incerto e pieno di paure. Tutti dicono il contrario di tutto, e tutti sostengono di avere ragione. Siamo più sospettosi, indifferenti, sembra che niente possa più toccarci davvero. Non si sa mai da che parte stare, anche se ci sono parecchi campanelli d’allarme che ti mettono il cuore in subbuglio. Perché sembra proprio che la storia non ci abbia insegnato nulla. Migliaia di anni a spostarci, scoprire, soffrire, pensare e provare a evolverci in qualcosa di migliore sembrano un po’ buttati nel cesso, sinceramente. Perché ancora oggi, un po’ più di ieri, c’è gente che vuole decidere come debba vivere altra gente, mettendo in discussione libertà che si pensavano inviolabili, e il paradosso è che lo fanno proprio in nome della famosa libertà di pensiero che tanto ti è cara, giovane ragazza idealista.
È pieno di sfumature, questo nostro mondo. Le ho scoperte in quindici anni, alcune mi piacciono, alcune mi fanno ribrezzo, altre paura.

Ma tu, per favore, continua a sognare cose belle, a sperare che la gente la smetta di aggredire gli altri perché diversi, a giudicare sempre sentendosi nel giusto.
Continua a pensare che la famiglia è un luogo, una casa dove stai al sicuro, non una definizione da vocabolario.

Tu continua a guardare avanti, ancora per un bel po’.

Il nord della bussola

Eh, non deve essere facile.

Davvero, lo penso veramente.

All’inizio, diciamo per i primi nove mesi, siete degli spettatori non paganti di una pièce vecchia come il mondo, in cui i due protagonisti prima sono uno dentro l’altro come una matrioska e poi, con un effetto speciale molto pittoresco, si separano, per infine riunirsi nuovamente in una simbiosi stile cozza e scoglio.

Pian pianino (e qui le varianti si sprecano, dipende dalla sensibilità e dal tempo di ognuno) salite timidamente sul palco, iniziate a interagire, magari prendete pure l’iniziativa ardita di un cambio pannolino, una poppata, un buffetto sul crapino.
Ma rimanete sempre un pochino sullo sfondo, rischiando di subire l’effetto comparsa, soprattutto nei giorni difficili (e ce ne sono, a bizzeffe): i dentini, la febbre, i brutti sogni.
Il piccolo protagonista saprà come pugnalarvi al cuore, invocando la mamma come salvatrice, sgusciandovi via dalle braccia, strillando ingrato nonostante tutte le vostre buone intenzioni, le coccole ruvide, i bacini impacciati.

Eh, non deve essere facile.

Ma poi la scena cambia. Il pargolo cresce, vi mette a fuoco e voi mettete a fuoco lui: tutto è nitido, la sceneggiatura è più equa. Siete diventati anche voi protagonisti sotto l’occhio di bue, eroi senza paura che tutto possono aggiustare, dal braccio rotto di una bambola al cuore spezzato da un fallimento. Diventate il nord della bussola, ed è un bel fardello cari miei, perché tutto quello che fate viene imitato, copiato, emulato, nel bello e nel brutto, nelle azioni e nelle parole.

E no, non è affatto facile.

Come tutte le cose, ci vuole tempo.

Dicono che si diventa mamma nel momento stesso in cui scopri di avere un esserino nella pancia.

Per diventare papà ci vuole un po’ di più, perché a voi i bimbi non crescono in pancia, ma nel cuore.