
C’è un posto, poco lontano da casa, che amo particolarmente.
Si tratta di un rudere, un muro di pietre tenuto in piedi per miracolo, che quasi sembra appoggiato lì per caso, appena sotto il sentiero. Il bosco è fitto, la luce che vi filtra è poca, il muschio cresce fitto e grasso sui sassi.
Ci porto ogni tanto i bambini: ci sediamo sulle pietre che probabilmente componevano il muro della cantina e, mentre mangiamo qualcosa di merenda, ci immaginiamo come poteva essere la casa, quando ancora qualcuno ci abitava.
Il focolare c’è ancora, nell’angolo, i sassi sono neri, impregnati dal fumo e dalle tracce delle fiamme, come ancora c’è il braccio bucato di legno della cigögna, dove si appendeva la caldaia per preparare il formaggio.
Sopra, l’occhio vuoto di una finestra.
Ci immaginiamo la stalla, la cucina con le poche stoviglie impilate sugli scaffali, il pavimento sconnesso, la porta di legno scheggiato che cigolava.
Non doveva essere un posto molto strategico, così in piedi e circondato dalle alte piante, però era un bel posto.
È ancora un bel posto.
Ogni anno trovo il muro più storto, più vuoto: pian piano la calce si polverizza e i sassi rotolano sulla radura. Il buco sta diventando sempre più grande.
Ai bambini ho raccontato che ogni tanto, forse, qualche fata o streghetta del bosco viene qui a riposarsi.
Quando non sarà altro che un cumulo di pietre, le fate andranno da qualche altra parte.
Ci sono centinaia di questi luoghi abbandonati, fra le nostre montagne.
Luoghi che, a osservarli bene, ti fanno emozionare, a pensare a quante vite hanno visto passare, quante storie, quante parole sono state sussurrate o gridate fra le mura diroccate.
La terra è ricca di ricordi.
La terra è vecchia, e incredibilmente bella.