C’è un posto, poco lontano da casa, che amo particolarmente. Si tratta di un rudere, un muro di pietre tenuto in piedi per miracolo, che quasi sembra appoggiato lì per caso, appena sotto il sentiero. Il bosco è fitto, la luce che vi filtra è poca, il muschio cresce fitto e grasso sui sassi. Ci porto ogni tanto i bambini: ci sediamo sulle pietre che probabilmente componevano il muro della cantina e, mentre mangiamo qualcosa di merenda, ci immaginiamo come poteva essere la casa, quando ancora qualcuno ci abitava. Il focolare c’è ancora, nell’angolo, i sassi sono neri, impregnati dal fumo e dalle tracce delle fiamme, come ancora c’è il braccio bucato di legno della cigögna, dove si appendeva la caldaia per preparare il formaggio. Sopra, l’occhio vuoto di una finestra. Ci immaginiamo la stalla, la cucina con le poche stoviglie impilate sugli scaffali, il pavimento sconnesso, la porta di legno scheggiato che cigolava. Non doveva essere un posto molto strategico, così in piedi e circondato dalle alte piante, però era un bel posto. È ancora un bel posto. Ogni anno trovo il muro più storto, più vuoto: pian piano la calce si polverizza e i sassi rotolano sulla radura. Il buco sta diventando sempre più grande. Ai bambini ho raccontato che ogni tanto, forse, qualche fata o streghetta del bosco viene qui a riposarsi. Quando non sarà altro che un cumulo di pietre, le fate andranno da qualche altra parte.
Ci sono centinaia di questi luoghi abbandonati, fra le nostre montagne. Luoghi che, a osservarli bene, ti fanno emozionare, a pensare a quante vite hanno visto passare, quante storie, quante parole sono state sussurrate o gridate fra le mura diroccate. La terra è ricca di ricordi. La terra è vecchia, e incredibilmente bella.
La prima volta che ho visitato il cimitero monumentale di Staglieno, a Genova, avevo diciassette anni. Ho scattato un sacco di foto, con una macchinetta che mi aveva regalato mia madre l’inverno precedente, e ho fatto sviluppare il rullino in toni seppia su carta satinata; ho conservato quelle foto in un album dalla copertina grigia, che mi ha accompagnato nei traslochi della vita e che ora giace nella scatola dei ricordi, insieme a poche altre cose.
La ragazza che mi accompagnò allora era una profonda conoscitrice di quel luogo, e devo a lei ogni passo, ogni aneddoto legato a queste statue. Mi accompagnò paziente in tutti gli angoli, nelle gallerie e fra le tombe sparse, facendomi notare tutti i particolari, le pieghe dei vestiti, le rughe scolpite nel marmo, i dettagli simbolici e le coincidenze raccontate nelle lastre consunte.
Non ho mai dimenticato quel pomeriggio e la meraviglia di quello che vidi.
Ho visitato Genova altre volte, camminando per i suoi vicoli e annusando i suoi aromi contrastanti, ma a Staglieno non ci sono tornata più.
Oggi mio marito, dopo un’estenuante visita all’acquario, con i bambini che dormivano in auto, mi ha lasciato davanti ai suoi cancelli. “Hai poco più di un’ora, prima che chiuda. Vai.” mi ha detto, senza troppi preamboli e ricami, e aveva un’espressione di dolcezza dipinta negli occhi, perché sapeva che mi stava facendo un regalo bellissimo.
Mi sono incamminata veloce nei porticati silenziosi, era tardo pomeriggio e non c’era nessuno; i passi facevano traballare le lastre di marmo sconnesse, mi spiaceva quasi calpestare tutti quei nomi, resi quasi illeggibili dal tempo. Ho incontrato solo due signori di una certa età, con mascherina e un mazzo di fiori in mano, che camminavano in silenzio senza guardarsi troppo intorno: sapevano già dove andare, la bellezza di quel luogo non poteva distrarli dalla meta.
Il cimitero è una città, mi disse la guida di tanto tempo fa. I suoi abitanti dormono, ma quasi li puoi sentire, puoi vedere i loro volti ritratti in pose eterne, le espressioni, le pieghe dei vestiti che la polvere ha reso di velluto. Le gallerie sono alte come case e i loculi arrivano fino al soffitto; avelli scoperchiati senza più alcun nome sembrano guardarti come bocche senza denti, e tu cammini più veloce, un po’ inquieta perché ok, sono morti e non ti fanno niente, però non ti piace essere sola, non proprio.
In ogni città che ho visitato, non ho mancato il cimitero. Ho curiosato fra le lapidi, ho letto centinaia di nomi, immaginato le storie, commuovendomi ogni volta. Ho appoggiato una mano sulla lastra che copre Modigliani e il suo amore, mi sono quasi persa nel Verano alla luce di un tramonto di fine inverno, ho sospirato nel Monumentale di Milano. Ma come Staglieno, mai più.
Perché solo lì ho visto le ciglia di pietra, e le lacrime di pioggia che ne definiscono i dettagli.
Dopo un’ora esatta, sono emersa da quel mondo sospeso di polvere e silenzio. Roby e i bambini addormentati mi aspettavano sotto un albero, e io mi sono sentita stracolma di vita, assetata di sole.
Il Bianconiglio. Illustrazione da “Alice” di Rebecca Dautremier.
Io ci ho provato. Davvero.
Dai, un libro al giorno per sette giorni. Ma è dura, durissima. Sette giorni sono pochi, come faccio? Cioè, scelgo a caso? Estraggo a sorte dal mazzo, con un occhio chiuso a metà?
E poi. Niente commenti, solo la copertina. Figo, penso. Così non si influenza nessuno, ognuno trae le proprie conclusioni, grazie per lo stuzzicore, mi faccio un’idea ma non troppo.
Ok, ma io non ce la posso fare così. Voglio dire, riesco ad essere logorroica anche quando scrivo di pesci rossi, anatre sperdute e cassonetti dell’immondizia: siete davvero certi che possa resistere alla tentazione di commentare qualcosa che mi ha fatto palpitare forte il cuore? No, dai.
Come posso, ad esempio, pubblicare la copertina consumata de Il maestro e Margherita, senza raccontarvi che quando lo aprii la prima volta ero in treno, circondata dalla pianura padana, e poi per tre ore non fui più lì, ma in un universo scoppiettante e meraviglioso che mi lasciò senza fiato?
E Barnum, raccolta 1 e 2, sottolineate fino a trasformare le pagine di carta grigiastra in piccole autostrade per formiche diligenti. Potrei recitare interi pezzi a memoria, facendo una lista delle persone a cui ho dedicato quelle pagine.
Bill Bryson, grazie di cuore, il tuo giro per l’Europa viene periodicamente rispolverato per tirarmi su di morale, e ogni volta funzioni che Xanax levati proprio. Ken Follett e la sua macchina del tempo, declinato nelle sfumature dei secoli, migliaia di pagine che mi hanno trascinato a spasso per il mondo.
Signor Eco, quando sei morto ho pianto, anche se (è dura confessarlo) i tuoi romanzi mi sono più indigesti di un piatto di pizzoccheri freddi. In compenso, tutto quello che hai scritto in saggistica mi trapana la testa ogni volta. Non per niente, “Non sperate di liberarvi dei libri” è nella classifica del mio comodino da anni. Non riesco proprio a metterlo via, ecco.
La valle dell’Eden mi ha fatto scoprire la cattiveria allo stato puro, La casa degli spiriti mi ha sconvolto e ammaliato come un incantesimo. Vita e La lunga attesa dell’angelo mi hanno fatto scattare un interruttore dentro, che da allora non si è più spento: non solo sono scritti come dei dipinti, ma raccontano storie che hanno il dovere di essere raccontate. E come le racconta lei, non c’è paragone.
Mi sono sbronzata di caldo con Cent’anni di solitudine, e rattrappita di freddo con Endurance. I quattro libri dell’Amica geniale hanno consumato le mie notti, smangiucchiato le pause pranzo, trapassato i pomeriggi. E dire che non mi ispirava per niente, perché le copertine sono orrende. Quando li ho terminati, ho letteralmente scagliato a terra il libro.
Ho pianto incazzata con quella deficiente di Emma, perché un uomo buono non si può davvero trattare così. Mentre le paturnie di Zeno mi hanno fatto ridere tantissimo, in barba al tizio serio che sedeva davanti nell’intercity Milano Genova. Con Open ho rischiato di iniziare a giocare a tennis, perdincibacco, e Donna imperiale della Buck mi ha regalato un gusto del dettaglio che è duro a morire. Uccelli di rovo l’ho letto tre volte, a dodici, ventidue e trentadue anni. Ogni volta è stato diverso, il che è meraviglioso.
Armi, acciaio e malattie mi ha letteralmente salvato dalla depressione più nera, in un periodo tosto. A mia madre, lettrice oculata e consigliera di una vita, avevano appena diagnosticato metastasi alle ossa. Pensavo di impazzire dal dolore. Leggere quel libro mi ha dato una visione della vita umana molto più pragmatica di quella che ero abituata ad avere, dandomi un nuovo paio di lenti attraverso cui ancora oggi riesco a vedere e a non soccombere nell’ansia.
Tralascio i dettagli su Gaiman, Stephen King e LeGuin. Sono delle querce su cui amo rifugiarmi, quando le faccende si fanno pesanti.
Non nomino nessun libro della mia infanzia, o dell’infanzia dei miei figli, perché prima o poi ci farò un tema dedicato.
Quindi
grazie a tutte le persone che hanno pensato a me nella sfida dei sette libri in sette giorni. È bellissimo vedere i gusti degli altri, indovinarne il carattere, ispirarsi o, anche, sorriderci su. Scusate se io non riesco a scegliere, né a fare una lista sensata e ordinata, non ce la faccio proprio.
La cosa che mi manda completamente fuori di testa è che io, tanti libri, NON ME LI RICORDO. Anche quelli belli belli. Quando mi chiedono un consiglio, vado in sbattimento. Ho bisogno di tempo, di concentrazione. Perché consigliare un libro non è mica uno scherzo.
Il pino mugo (pinus mugo) non è una pianta molto popolare. Ha un nome buffo, decisamente poco nobile, che ricorda funghi, sottoboschi, ombra, con quella U e la O vicine vicine. In dialetto è muf, dal suono ancora più comico e quasi spregevole. Il suo aspetto è quasi insignificante, tutto storto e poco imponente, con gli aghi scuri disordinati e pungenti. Cresce basso e allunga le radici storte fra i sentieri, fra le rocce e sui pendii sassosi. Il suo legno è pieno di nodi e resinoso, quando lo bruci scalda poco e dà un fumo grigio, che riempie le stufe di fuliggine densa. Nulla a che vedere con il solido abete, il mutevole larice, la nobile quercia, l’elegante e raffinato salice.
Sul pino mugo crescono gemme profumate che maturano violacee con il caldo dell’estate. Quando le raccogli, strappandole ai rami, ti pungono cattive, lasciando tracce collose di resina che rimangono a lungo sulle dita.
Quando muore, i suoi aghi rossi e arancioni diventano i mattoni dei formicai.
Pensavo a questa pianta, oggi.
Fino a tre giorni fa, questo mugo era completamente coperto da tonnellate di neve compatta. È stato sepolto per sei lunghissimi mesi, chiuso da una massa gelida e pesante, senza mai vedere un raggio di sole.
Pensavo fosse morto, finito.
E invece. Eccolo qui, tutto storto e ancora più piegato di prima, ma vivo. I suoi rami puntano in alto, dondolando nel vento, e già si riescono a scorgere le nuove piccole fresche gemme.
A luglio le raccoglierò, pungendomi le dita, e le metterò in un barattolo di vetro, ricoprendole di zucchero. Lo sciroppo lo darò ai miei bimbi il prossimo inverno, quando arriverà la tosse.
Ecco, l’augurio che posso fare a tutti è di essere, almeno un pochino, simili al mugo.
Semplici, magari storti, magari apparentemente poco utili, ma incredibilmente resistenti, affamati di sole e di aria. E pazienti.
Molto tempo fa, ancora prima che io e Roby avessimo anche solo l’idea di formare una famiglia, ci regalarono un piccolo presepe in terracotta. Era simpatico, con i pupazzetti cicciosi dall’aria sorridente, molto semplice e senza pretese: solo Giuseppe, Maria, un Gesù che fa tutt’uno con la mangiatoia, asino, bue e tre Re Magi. Stop.
Lo adorai immediatamente. Da allora, ha sempre trovato posto nel nostro soggiorno incasinato, fra lettere, candeline, libri e chiavi sparpagliate. Prima aveva un’ambientazione fissa, ma da che Linnea ha cominciato a giocarci, ci abbiamo rinunciato. Ogni tanto troviamo Gesù nascosto dietro l’acquario, o Maria appoggiata precariamente sul barattolo del caffè. I Re Magi viaggiano per tutto il corridoio, litigando con i puffi e la bambola di Elsa, mentre Giuseppe fa il pastore alla stalla di plastica.
Prima di andare a dormire, tutto torna, più o meno, al suo posto.
L’altro giorno Linnea ha rotto un Re Magio. La statuina di Melchiorre (non so se è proprio lui, ma ho deciso di sì) le è scivolata di mano e si è frantumata in tanti pezzi. Lei si è precipitata da me, piangendo disperata. “Aggiustala, aggiustala, per favore, ti prego, non volevo, no, no”, singhiozzava. Io non sapevo cosa fare. I pezzettini di terracotta erano sparpagliati sul pavimento, fragili e numerosi, mentre la testolina di Melchiorre sembrava fissarmi con i suoi occhi a oliva. La tentazione di prendere la scopa e buttare via tutto era fortissima, ma la mia bambina era sinceramente mortificata e mi guardava attraverso moccio e lacrime. E poi, un presepe con due Magi non si è proprio mai sentito.
Si rompono i bicchieri e i piatti. Si rompe la televisione, il cellulare, la macchina. Si rompe la punta della matita, la suola delle scarpe se si cammina tanto, la busta della lettera che hai paura di leggere. Si rompono i pantaloni all’altezza del ginocchio, gli occhiali se li lasci senza custodia, si rompono i libri se li sfoglia un bambino curioso. Si rompono le scatole, i silenzi, le abitudini. Si rompono i cuori.
Le cose si rompono, soprattutto se vengono usate.
Qualcuna si rompe se non viene usata mai.
Ma per ogni cosa rotta c’è una remota possibilità di essere aggiustata. Magari non sarà mai più la stessa, la rottura l’ha cambiata, l’ha resa fragile. Forse non potrai usarla come un tempo, non funzionerà come prima. Magari diventerà qualcosa di nuovo.
Per quest’ anno che viene, posso solo augurare tante cose vissute, giocate, sognate, usate, rotte. Auguro che ci sia sempre qualcuno che dica “Vedrai che si aggiusta tutto.” Auguro di crederci con tutta l’anima, in questa promessa. Perché alla fine è ciò che conta di più, sperare e, anche, sapere accettare.
Dunque, fatemi capire bene.
Di solito non scrivo su problemi giganti, non mi sento all’altezza e penso che ci sia gente molto più brava di me a farlo.
Ma giuro che non capisco proprio.
Scorro la bacheca e leggo un sacco di commenti acidi, pungenti, ironici e cattivi su questa ragazza qua.
Viene trattata come una rompicoglioni, una falsa, un’esaltata, un’ipocrita, una manovrata, una pazza, un’incoerente.
Mi sono appena sciroppata un video in cui in sostanza si dice che “Ehi, il libro di Greta non lo ha scritto lei e non parla strettamente di cambiamenti climatici. E attenti, mentre noi dell’occidente dobbiamo fare i bravi bambini, in India e in Cina si comportano da criminali”.
Ma questo atteggiamento, per me, è l’equivalente di quando sei piccolo e ti sgridano per qualcosa che hai fatto e tu balbettando dici “ma lui è peggio di me.” Livello maturità: -20.
In questi mesi, da quando il “fenomeno Greta” è esploso, ne ho sentite di tutti i colori.
E questo mi mette un sacco di tristezza.
Perché invece di dire “toh, una ragazzina che ha il coraggio di dire qualcosa”, anche se è giovane, anche se è solo una sedicenne, invece di alzarsi in piedi e dire “Ueh, ha ragione”, in molti la stanno osteggiando come se fosse il male assoluto.
Magari è manovrata davvero, magari è strumentalizzata. Ma i giovani sportivi supersponsorizzati che stravincono non lo sono, forse? Non sono anche loro il veicolo di un messaggio che può muovere le masse?
Che problemi avete, esattamente, per detestarla così tanto?
Ora, io odio i fanatismi, perché non portano a nulla di buono.
Ma questa cosa non è fanatismo. È sposare una causa, quella del futuro, e portarsela dentro con tutte le proprie forze.
Se io sto attenta a non buttare la cicca della sigaretta per terra, se non butto più l’olio del tonno nello scarico, è ANCHE per il casino che ha portato questa ragazzina qua. Non solo per lei, ma anche per lei.
E per lo sguardo dei miei figli mentre giocano nel prato e guardano il cielo.
Per il loro futuro.
Chiamatemi rompicoglioni, dai.
Se n’è stato lì per tutto il pomeriggio. Viene tutti i giorni, a quanto pare. Si siede al tavolo, ordina un bicchiere di bianco, fuma sigarette con fare pensieroso. Ogni tanto butta un’occhiata in giro. Non ha un espressione serena, sembra tollerare poco quello che lo circonda, come se subisse ogni respiro. Una bambina, seduta al tavolo vicino, lo guarda curiosa, accennando un ciao con la manina sporca di gelato. Lui non si muove di un millimetro, come se avesse una maschera di rughe scolpite nel marmo. Come se quel timido approccio fosse un moscerino spiaccicato sul vetro del bicchiere. Chissà cosa pensa. Chissà se l’ha davvero vista, attraverso il fumo della Marlboro rossa, quella manina. Chissà se ha caldo (ci sono tipo 33 gradi, e il sole si spalma come vernice sulla sua giacca in lana rasata). Chissà perché è vestito così, come in una cartolina dai colori acquerello. E per chi si è vestito così, come per un appuntamento con qualcuno di importante. Chissà da dove arriva quell’anello vistoso, ostentato su un dito gonfiato dall’artrite. Chissà se si è accorto dei miei sguardi curiosi. Magari sì, magari non gliene importa nulla. Il suo vino bianco si scalda nel vetro, lui spegne l’ennesima sigaretta, io devo andare via, richiamata all’ordine delle faccende da sbrigare. Gli scatto una foto, di nascosto, da ladra, fingendo di farmi un selfie da smorfiosa. Poi pago il mio caffè, ripongo il cellulare nella borsa e mi alzo, sudata, stanca e pensierosa. Attraverso i tavolini affollati, zigzagando fra le sedie di plastica. Poi mi giro di scatto. E lo sorprendo a guardarmi, gli occhi stretti fra le palpebre e il bicchiere alle labbra. Mi piace pensare che si sia messo in posa per me. In realtà, penso che abbia messo in pausa la sua vita, qualunque essa sia, da bel po’ di tempo.
Due foto.
Luce di pieno giorno, e poi la sera che si tinge di viola, verso una notte scintillante di luna gialla.
Un luogo, il lago pieno d’acqua fino all’orlo, come una tazza che rischi di rovesciare, circondato da montagne ripide e verdi.
Persone che provengono dall’altro capo del mondo, arrivate qui per vedere coi propri occhi questi nomi sui cartelli. Varenna, Lezzeno, Ossuccio, Cernobbio, Bellagio.
Traghetti che fanno sponda come palline di un flipper liquido. Paesi attraversati da una strada stretta e bollente, senza un marciapiede, case accrocchiate sulle sponde, roba che se dai un calcio ad una palla le puoi dire addio in mezzo secondo.
Pluff.
Angoli di una bellezza che ti fa quasi male, case seminascoste dalle siepi fitte, sogni di principesse ma con gli scuri accostati, piscine azzurrissime che fanno a pugni con il blu scuro del lago.
Chiesette di pietra grigia agli angoli delle stradine, pescatori assonnati che aspettano, vecchietti dalla pelle di cuoio che se la giocano a scopa su sedie di plastica, turisti col cappello di paglia che sventagliano il foulard di seta attorno al collo.
I ricordi che appaiono e scompaiono, il nonno con la golf marrone carica di ortensie azzurre, la nonna che si sedeva a bere il tè sul terrazzo, lo sguardo sul lago scuro, verso Lierna, e un sorrisino soddisfatto sulla faccia.
Io invece guardo ancora a nord, come facevo da piccola quando venivamo in ferie forzate, perché i nostri erano troppo occupati a lavorare e la nonna ci curava. Ricordo ancora la nostalgia di casa, mischiata alla felicità di essere in un posto così speciale.
Guardo a nord, appena dietro la curva c’è il profilo di neve della Valtellina.
È una mattina inondata di luce.
Entro in salotto (che nel nostro caso è anche cucina-studio-laboratorio-saladapranzo-stanzadeigiochi-galleriadarte-albumfotografico) e vedo Linnea e la sua nonna tutte intente a preparare il Dolce Proibito (detto anche Tiramisù).
Mi fermo un secondo sulla porta a guardarle, con Samuel mezzo addormentato che appoggia la testolina sul mio petto e un patello pulito in mano: sto assistendo ad una scena bellissima. Dispongono i savoiardi tutti in fila, come soldatini messi a riposo, dopo averli inzuppati nella ciotola del caffè. Entrambe hanno la testa abbassata sulla pirofila, capelli grigi e capelli biondi, e discutono su come prendere i biscotti fradici senza spappolarli. Nel frattempo, la moka borbotta sul piano cottura e l’aria si riempie del profumo di caffè appena fatto.
E allora capisco che ci sono cose che non scompariranno mai, nel mondo.
Il legame che unisce i piccoli con i grandi.
La primavera che in un modo o nell’altro entra dalle finestre e ti sveglia.
Il ricordo di colazioni gustate piano, con la moka che continua a coccolarti le orecchie con il suo saluto, e tutta la mattina davanti. Nessuna macchina del caffè, capsula o cialda, potrà mai superare la bellezza di questo suono.
Nessun inverno, anche quello più lungo, può durare in eterno.
Nessun programma televisivo, parco di divertimenti, applicazione del telefono potranno darti la stessa tranquillità: quella che si prova nel passare del tempo con chi ami, sia che abbia un ciuffo biondo cenere e una manciata di anni o capelli grigi e tante storie sulle spalle.
Saranno anche banalità, ma ogni tanto serve proprio ricordarselo, mentre la luce della mattina si divora le ore di questo sabato di vacanza.
Ho sempre detto che è in cucina che succedono le magie.
PS. La foto non è -ovviamente- della mia cucina, ma di quella del Mus! Museo di Livigno e Trepalle.
Che di storie, da raccontare, ne ha proprio tante.