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Abbassati!

Madonna di Tirano, fiume Poschiavino

Vivere sopra i milleottocento metri ha i suoi vantaggi, tipo che, detta proprio brutalmente, per via della scarsa ossigenazione hai il sangue che somiglia alla marmellata (non so voi, ma è da quando ho otto anni che questa immagine pulp mi perseguita).

Quindi, se per svariate ragioni esci dal paese e ti abbassi di quota (ricordandoti che sì, esiste un mondo, oltre la cornice rococò delle montagne), ti senti dotato di superpoteri.

Cammini di fretta e non hai il fiatone.

Il cuore sembra battere più deciso e forte, ma senza quell’allarmante ritmo da percussionista sudamericano. Sembra fare il suo lavoro per benino, lui, e raramente lo senti all’altezza della giugulare.

Quando fai le scale con qualcuno che non condivide il tuo medesimo destino da montanaro, te ne accorgi al volo. Lo guardi con sufficienza dal pianerottolo mentre arranca abbarbicandosi alla ringhiera, mentre tu fai i gradini tre a tre con la leggerezza di una gazzella.

Ma la cosa più bella di abbassarsi di quota ogni tanto non è la prestanza fisica con cui affronti le faccende, che sia affrontare la maratona tra le vigne o la spesa mensile all’Iperal.

È viaggiare tra le stagioni.

Se è aprile, parti dalla valle con i colori marrone fango e beige neve sporca depositati in fondo agli occhi. La giacca, che tieni addosso a mo’ di seconda pelle da tipo cinque mesi, odora di vento freddo e fumo di camino.

Ma ti abbassi di quota ed ecco la primavera. Inizi a spogliarti solo a quota 800 metri, perché non ti fidi del tutto del termometro della macchina. Fuori, oltre ad esserci venticinque gradi (la temperatura che a casa tua raggiungi a fine luglio, se Dio vuole), è un tripudio di colori pastello. L’erba è alta lungo il guardrail, pronta per essere tagliata. Si muove ondeggiando al vento tiepido, e tu ti senti praticamente già al mare, con la sabbia fra le dita dei piedi.

Ma la meraviglia pura è l’autunno.

A casa mia i larici cominciano a tingersi di un verde giallo da evidenziatore già ai primi di settembre. Se tutto va bene, a metà ottobre il bosco è di un arancione intenso, che si staglia orgoglioso contro il verde scuro dei pini e il marrone caldo del terreno.

Ma a fine ottobre, vuoi la neve vuoi il vento, gli aghi sottili si sono già depositati tutti sul terreno, a miliardi, a formare un tappeto morbido che scricchiola se lo calpesti.

Fine, fertig, finish.

In basso invece tutto comincia più tardi, e più densamente.

Se l’autunno a Livigno è un incendio che divampa e si spegne in un battito di ciglia, a bassa quota invece è un fuoco che si accende piano piano, inesorabile e graduale. Si comincia dalle betulle luccicose, poi la vite inizia a sanguinare e infine tutto brucia in mille sfumature di ottobre.

Uno spettacolo.

Quindi, è bellissimo potersi abbassare di quota, ogni tanto.

Anche solo per sentire ancora un po’ di calore nelle ossa, prima di affrontare i morsi dell’inverno. Per ricordarsi che le stagioni sono quattro, e che il mondo gira, non sta mai fermo, anche se ogni tanto sembra immobile, incastrato come un diamante tra le nostre convinzioni.

Il vestito delle grandi occasioni

Oh, io mi emoziono facilmente. Ho la lacrima pronta, al limite della frigneria. E mi entusiasmo con la stessa facilità, è risaputo.
Questo video mi è piaciuto tantissimo. È fatto bene, curato, con le immagini giuste e la musica ancora più giusta. È come un vestito di buona fattura, cucito a mano, con la stoffa morbida e scintillante, di quelli che ci passi sopra la mano per accarezzarlo e ti stupisci delle cuciture, dei dettagli, dei ricami precisi.
È un ritratto della Valtellina, è casa mia, riconosco un sacco di posti, scorci mozzafiato che ti fanno sentire fiera, chissà poi perché. Si passa dalla natura alle case di pietra, dal vino al formaggio fino all’arte (toh, c’è anche quella. Viva!), in una carrellata suggestiva che, montata ad hoc, riesce perfettamente a fare quello che deve fare, ossia invogliare la gente a venire in Valtellina. Perfetto. Bravi bravissimi.
Poi lo riguardo e ci penso su.
Penso a quanta dannata fatica abbia fatto il regista. A quanta maestria ci voglia per ricavare un cosi bel vestito, usando sì materiali d’eccellenza, confezionandolo però (per continuare la metafora) in un laboratorio incasinato e malridotto.
Perché chiunque abbia gli occhi, chiunque sia passato per la statale 38, chiunque viva qui SA quanto il patrimonio culturale e ambientale della valle sia compromesso. Masticato, calpestato, trascurato, sacrificato.
Ci piace pensare che le nostre radici siano intatte, adoriamo gli scorci romantici, le fotografie d’epoca e quelle da calendario, ricerchiamo gli ingredienti e i sapori della tradizione genuina. I costumi tipici, lo sport in ambienti incantevoli, i negozietti di una volta. I formaggi di malga, con la muffa sulla crosta e quel colore rosso che ti fa pizzicare la lingua. I pizzoccheri tagliati spessi, il vino denso che ti lascia le labbra viola come un rossetto.
Tutte queste cose, nella vita reale, rischiano davvero di sparire.
Quindi ben venga un bellissimo video per ricordarci le cose belle che abbiamo intorno. Ci vorrebbe però anche un po’ di lucidità e la consapevolezza che, se non stiamo un po’ attenti tutti quanti, nemmeno Photoshop e un regista di Hollywood potranno restituirci la Valtellina.
Resterà solo un bel vestito da indossare nelle grandi occasioni, sperando che le tarme non se lo mangiucchino tutto.

La memoria del cemento

Questo documentario va guardato per una serie illimitata di motivi, tra cui:
-sei un appassionato di storia o di ingegneria, o ambedue.
-conosci anche solo un briciolo di Alta Valtellina.
-hai visitato la Val Fraele almeno una volta nella vita.
-hai visitato la Val Fraele in primavera o inverno, e hai visto le costruzioni diroccate che giacciono sul fondo fangoso dei laghi vuoti.
-hai visitato la Val Fraele e hai camminato sul fondo fangoso dei laghi vuoti, chiedendoti quanti piedi sono passati lì prima dei tuoi. Tanti, fidati.
-sei curioso di sapere cosa si facesse in Alta Valle nei primi cinquant’anni del xx secolo, oltre che coltivare patate, pascolare mucche, fare figli e contrabbandare merce, fra una guerra mondiale e l’altra.
Ecco, un’idea te la puoi fare.
-hai almeno un parente, anche lontano, che ha lavorato alle dighe. Giusto per farti un’idea di quello che ha contribuito, in una maniera o nell’altra, a fare.
-hai la mania dei vestiti d’epoca, degli attrezzi e dei trasporti di un tempo che fu. È una parata di delizie, fidati.
-se dimentichi spesso la luce accesa, il phon al massimo, se usi la lavatrice per lavarti un solo paio di mutande. Perché l’energia elettrica non è proprio solo un tasto on/off. È milioni di metri cubi di cemento. È ingegno e speculazione. È la storia, nel bene e nel male.
Ecco. Questi sono alcuni dei motivi per fermarsi a guardare queste immagini. A me hanno quasi fatto venire il magone, perché a fatica riconosco la valle, in mezzo a tutto quel casino; eppure vedo i profili delle montagne, il bosco, e so che è lei. E penso che un posto così denso di storie, passi, memorie, sia davvero un posto speciale.
Buona visione.

Un buco da riempire. 1987

Nell’estate del millenovecentoottantasette avevo quasi quattro anni.

Non ricordo quasi nulla di quel periodo, solo un sacco di nuvoloni grigi e l’annuncio angosciato di un guardiano della diga riguardo ad una frana scesa in mattinata. Io, nella mia testolina, mi ero subito immaginata un sasso rotondo che rotola giù.
Alla faccia del sasso.
Crescendo la realtà si è palesata davanti ai miei occhi in un pezzo di montagna enorme che non c’era più, come mangiata via.

Ma si fa l’abitudine a tutto, soprattutto se l’hai quasi sempre visto così, il paesaggio. Prima la strada ci passava sopra, di fianco, col pullman della scuola vedevi i due pozzi neri e profondi che veniva un brivido a guardarci dentro; poi sono arrivate le gallerie, veloci veloci e lunghe lunghe. La frana ora la intravedi come in un flash, uno squarcio, poi ancora cemento. Quasi la dimentichi che c’è, perché non è più come un morso, ci crescono erba e file di alberelli nuovi.


Ma la vita fa giri strani, e ha fatto in modo che il mio sguardo si posasse con molta più attenzione su quello squarcio di luce fra le gallerie.
Ho conosciuto persone, ho ascoltato il dono prezioso delle loro storie, le ho guardate negli occhi mentre raccontavano.

Non è giusto dimenticare. Rispettare, sì.


C’è un fiore che simboleggia la dignità e l’amore per qualcosa che dura per sempre.
Le dalie non crescono in alta montagna, non sbocciano più a Sant’Antonio Morignone, ma la dignità sì, ne ho la certezza.

Giulietta e Romeo qua-qua. Come l’amore ti rende incosciente.

Camminando lungo il fiume si possono fare molti incontri. Capita di incontrare pure una distinta coppia di anatre, che ne approfitta dell’aria frizzante per nuotare. Li ho osservati per un bel po’, e mi sono immaginata quello che si dicevano.

LEI: Ma cosa ci sarà mai venuto in mente. Pazzi, siamo pazzi.
LUI: Cara, non ti agitare, poi sudi e ti si arruffano le piume.
LEI: Siamo rimasti solo noi due. Sai cosa me ne importa delle piume. E poi sono talmente ghiacciata che non mi si arruffa più niente.
LUI: Sei splendida comunque, tesoro. Ed è fantastico essere qui con te.
LEI: No, non hai capito. Cocco, siamo rimasti soli. Gli altri se ne sono andati, volati, migrati verso posti più caldi, ciao e grazie, chissenefrega, la natura chiama, e se chiama quella tu non puoi esitare, tentennare, fare l’alternativo. L’avevano detto tutti che era un’idea stupida, che nessuno l’aveva mai avuta. Pazzi.
LUI:A me sembra un bel modo alternativo per passare l’inverno.
LEI: Qui non passiamo l’inverno. Qui ci rimaniamo secchi. Che cretina che sono stata. Pensavo davvero che il freddo non sarebbe stato così freddo, che se ce la facevano quegli stupidi passerotti insulsi e quei gradassi di corvi ce l’avremmo fatta pure noi. Mi dispiace, mi dispiace. È colpa mia, è stata una mia idea.
LUI: Sentimi, ora basta. Tutte le mattine e tutte le notti la stessa storia. Adesso smetti di nuotare in tondo e mi ascolti.
Dove sei tu, ci sono io. Anche se siamo nel fiume più freddo che conosca, nell’ansa più lontana, fra le frosche più spoglie. L’ho promesso quando il mondo non era così freddo, tutto era dorato, caldo, semplice. Ora, io non mi rimangio nulla. Perché magari la primavera non la vediamo, magari è stato davvero un grosso errore. Ma vuoi mettere essere gli unici due germani che nuotano in questo fiume a gennaio?
LEI: Sai sempre come tirarmi su il morale, caro.
LUI: Pettinati le piume, cara, e nuota bella dritta. C’è una di quelle pazze con il cane e il cellulare che ci sta scattando una foto.

Ora, io non so se sono davvero gli unici due esemplari di anatre che se la nuotano in questo periodo.
Ma spero tanto che ci arrivino, alla primavera. Così, per simpatia.