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Come un pesce all’amo

Tutti conoscono Fosbury. O meglio, tutti quelli che, volenti o nolenti, hanno dovuto affrontare un minimo di educazione fisica, negli anni della giovinezza, hanno avuto a che fare anche con questo tizio.

Personalmente non sono mai stata una gran sportiva. Innanzitutto, detestavo correre e i conati di vomito che puntualmente mi accompagnavano dopo il famigerato test di Cooper. La mia parte preferita della lezione di educazione fisica era chiaccherare in spogliatoio, magari sfoggiando le fantastiche scarpe fluo sognate per mesi. Ero terrorizzata dalla corsa a ostacoli: puntualmente mi bloccavo appena di prima dell’ostacolo, mi inchiodavo proprio, come Willy coyote sull’orlo del baratro, con tanto di braccia a mulinello. Alla fine il prof Clemente mi esentò dalla prova, rassegnato, dando onore al proprio nome.

Però mi piaceva la pallavolo, il salto in lungo e soprattutto il salto in alto. Anche se ero alta un metro e trenta e non capivo quale fosse il mio piede giusto per saltare (destra o sinistra? Il mio eterno dilemma…ma questa è un’altra storia), mi piaceva un sacco lo slancio che dovevamo darci, la schiena come un’arcata, le gambe alte per non toccare la sbarra.

Un salto all’indietro, senza vedere dove atterri, sperando ad occhi chiusi che il materassino non si fosse spostato per dispetto.

Il massimo dell’incoscienza, se ci pensate.

Una ventina di anni dopo, durante delle intense vacanze natalizie, la poco sportiva me stessa si è ritrovata a guardare un documentario su Messico ’68. Sì, le Olimpiadi leggendarie, con le contestazioni violente, i due pugni neri alzati sul podio, i record mondiali frantumati atleta dopo atleta. Durante quelle due settimane di ottobre, ad un’altitudine pazzesca, uomini e donne entrarono a grandi passi nella Storia, per non uscirne più.

Fra questi c’era Dick Fosbury, ragazzo allampanato dall’aria di chi la sa lunga ma non vuole dirlo. Con le scarpe spaiate e la faccia da studente di Harvard, saltò l’asticella all’indietro, invece che con la poco elegante sforbiciata canonica. Il resto lo conoscete.

Dick Fosbury è ora un distinto signore che vive nelle lande americane, ha un ranch ed è perfettamente consapevole di quello che ha fatto. Nell’intervista del documentario dichiara che il suo stile richiama il movimento che fanno i pesci quando vengono pescati: oramai spacciati, appesi all’amo e tirati inesorabilmente dalla lenza, si dibattono fuori dall’acqua in salti disperati e bellissimi, tutti arquati indietro. Non sanno cosa li aspetta, è tutto natura e istinto.

Non penso che mai nella vita riproverò la sensazione del salto alla Fosbury.

Ma il concetto di saltare all’indietro e di frantumare dei cliché per provare qualcosa di nuovo ed esplosivo mi fa sognare. Fa sognare tutti.

PS. In questi giorni ho anche scoperto che questo tipo di salto non è proprio stato inventato da Fosbury. C’era Debbie Brill, ragazza canadese, che a 13 anni nel 1966 lo sperimentò per la prima volta. Ma senza particolare successo, a quanto pare.

Ci voleva proprio lui, con quella faccia lì, in quelle olimpiadi da panico, per entrare nella leggenda.

Lettera aperta al ciclista di strada

Caro ciclista,
è da molto tempo che desidero scriverti questa letterina.
Ogni tanto, chiusa in macchina con la musica a palla, incerta se meditare sul destino del globo terracqueo o su cosa preparare per cena, vengo fulminata da codesti pensieri.
A te che mi sfrecci davanti, mi sorpassi da destra e da sinistra, che mi sfiori con coraggio la portiera e lo specchietto, magari urlando qualcosa di poco carino. A te, che magari sei anche caruccio, nel fiore degli anni, con i polpaccini lucidi e la tutina fluo.
Ti ammiro, davvero. Ci vuole coraggio per sfrecciare a folle velocità nel traffico, vestito come un giullare di corte, su due ruote che hanno lo spessore del mio dito mignolo. A te non fa paura nulla, impavido cavaliere: pedoni, semafori rossi, incroci, curve. La strada è il tuo regno, e tu la domini con sprezzo del pericolo. Se poi con te ci sono altri allegri compagni di merende, l’effetto è garantito: una carovana compatta di atleti che sinuosa si sposta su e giù dai passi, belli e splendenti, mens sana in corpore sano, e pazienza se ogni tanto uno di voi sputacchia o snaricchia poco elegantemente sul mio parabrezza.
Caro ciclista, sappi quindi che ti ammiro, nonostante tutto.

Peròporcadiquellavacca.
Non sei invincibile. Non sei invulnerabile. E, mi spiace sottolinearlo, non sei Gesù Cristo. Non hai il bonus vita come Mario Bros. Se ti schianti, ti fai male. Molto male. E chi ti incontra/scontra si spaventa assai.
Io il mio metro e mezzo di distanza lo tengo eccome, caro ciclista, perché ho a cuore la tua e la mia vita, sai, mio piccolo pazzoide di nylon vestito. Tu cerca di raffreddare i bollenti spiriti, ripassati il codice della strada e continua a pedalare sereno. Hai tutto il terreno che vuoi sotto e davanti a te, vedi di non mettercelo SOPRA.
Con affetto e ammirazione (no, simpatia no, ma ammirazione sì),

Alice.