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Il museo ispiratore

I musei sono come libri. Ci puoi trovare mondi meravigliosi e frasi che ti ribaltano la testa, oppure banalità imbarazzanti, magari raccontate in una maniera che proprio non ti aspetti. Io sono sempre in ansia quando entro in un museo, da sempre.
Immaginatevi come sono messa ora, che in un museo CI LAVORO, ci metto testa e pensieri, e che ogni tanto me lo sogno pure di notte.
Infatti ho un bel giorno libero e decido di affrontare a testa alta la visita di ben due musei vicini di casa, giusto per non farmi mancare nulla, e nella gita trascino con me due generazioni, ovvero mia madre e mia figlia.
Sul Museo dell’Engadina di San Moritz ho poco da dire: è FIGO. Punto.
Per tornare alla metafora dei libri, è un bel classico malloppone che rileggi dopo il liceo e dici: però. Che stile. Che eleganza. Non ci arriverò mai, a questo livello. Ci credo che è famoso, costoso e molto, molto tiroso. Ma…posso? È pure un filino noioso, con quest’aurea tutta perfettina. Sarà invidia, la mia?
Il Museo del Parco Nazionale Svizzero di Zernez è tutta un’altra storia.
Innanzitutto, è ORRENDO, visto da fuori. Un cubo di cemento senza un fronzolo, una delicatezza, un’insegna. Perfino gli edifici dell’ ex DDR hanno una carica più poetica.
Fai fatica a trovare la porta, ma una volta dentro…wow.
Vedi un drago e ti spiegano perché è lì, fra impronte di dinosauri che hanno camminato giusto dietro casa tua e massi erratici parlanti.Ti raccontano faccende geologiche complesse usando strumenti da bambini, e tu, appunto, LE CAPISCI!! Puoi toccare quasi tutto, far salire la tua bimba sopra un gipeto e vedere il suo volo alto sulle valli. Ti ritrovi con il naso all’insù a guardare mille volatili che dondolano piano, o a contare gli anelli di un tronco secolare.
Già la storia è bellissima se vieni in montagna in vacanza, ma se ci vivi in mezzo ogni santo giorno..allora diventa un momento meraviglioso.
Morale della storiella: i musei sono davvero come i libri. Mai giudicare un libro dalla copertina. Più porte apri, e più ne apriresti. Alla fine, hanno davvero qualcosa da insegnarti, sempre.

La principessa bambola.

C’era una volta una principessa di nome Eva. Si chiamava così perché era la prima bambina nata nel castello da molto, molto tempo. Un nome semplice, corto e luminoso.

Tutti però la chiamavano “principessa bambola”, stando ben attenti a non farsi sentire dalle orecchie regali: guai a chi avesse pronunciato un nomignolo del genere davanti alla regina!
Non si poteva nemmeno fare alcun riferimento alla notte in cui era nata la bambina, era un argomento vietato, tanto che non veniva festeggiato il principesco compleanno. Così, piano piano, s’erano persi i dettagli sulla sua nascita e persino il conto degli anni.
C’era addirittura chi diceva che Eva non esistesse, che fosse solo una bella bambola di porcellana, creata su ordine della regina per poter avere un po’ di compagnia.
Ma Eva era viva e davvero speciale, fin dalla nascita.
Eva non vedeva: i suoi occhi erano spenti, come se nessuna luce potesse colpirli, solo ombre.
Eva non parlava: dalle sue labbra non usciva alcun suono.
Eva non sentiva: le sue orecchie non udivano nemmeno la musica del giullare.
Passava la maggior parte del tempo seduta su una sedia piena di cuscini, la testa appoggiata alla mano, quasi immobile nel suo silenzio, proprio come una bambola.
Ma (c’è sempre un “ma”, nelle storie) nella sua vita sempre uguale c’erano anche dei momenti di pura gioia, ed erano quando arrivava Betta, la figlia della cuoca.
Betta era robusta, alta come una porta, con grandi mani sempre in movimento. Eva la sentiva arrivare da lontano, perché il pavimento tremava e il vento cominciava a danzarle sulla faccia. Betta spalancava porte e finestre, spostava i mobili per creare una pista da ballo e costruiva girandole multicolori che si muovevano nell’ aria.
La ragazza sapeva che la principessa-bambola amava il vento e il sole sulla pelle, lo capiva dal sorriso che si apriva come un fiore quando venivano tolte le pesanti tende.
Si accorgeva subito quando Eva era stanca, lo sentiva dal suo respiro leggero: allora smetteva di farla piroettare per le stanze, la posava delicatamente sul tappeto e le faceva appoggiare la testa sul proprio cuore, per farle sentire il ritmo del ballo e della vita.
Dopo queste visite, gli occhi ciechi della principessa brillavano di luce nuova. Era VIVA.
La regina, rigida e dallo suo sguardo duro, vedeva ogni cosa e taceva. La sua posizione, il caratteraccio e le preoccupazioni non la rendevano una mamma paziente e tollerante. Nonostante ciò, si rendeva conto che quell’ umile e rumorosa sguattera era speciale per la sua delicata figlia, e non osava separarle.
Passarono gli anni, finché un giorno accadde qualcosa di speciale.
Betta si innamorò del bel garzone che consegnava le mele al castello, il quale la ricambiò senza indugio, conquistato dall’allegria e vitalità della ragazza.
Eva si accorse presto che qualcosa era cambiato: Betta non era più rumorosa, ingombrante e turbinosa come sempre, anzi, si muoveva come se avesse paura di urtare il mondo, o che il mondo urtasse lei. La principessa-bambola, attraverso le nebbie in cui era avvolta, lo intuì subito.
Un pomeriggio, quando erano sole, mentre la luce dorata le avvolgeva in un abbraccio, Eva allungò una mano sulla pancia di Betta e sentì un bozzolo, un frullare di ali leggere. La principessa rise piano e Betta sorrise triste, perché sapeva che doveva allontanarsi da corte e dalla sua amica. Quindi si strinsero forte le mani, dita sottili intrecciate a dita rozze. Si salutarono così, tre cuori palpitanti.
Betta scomparve quella notte.
Le mele cominciarono ad essere consegnate al castello da un altro garzone; ben presto la gente giunse alle sue conclusioni, per poi smettere di parlarne: cose così succedevano di continuo.
Solo Eva rimase a pensare all’amica. Nessuno la faceva più ballare, le tende spesse rimanevano tirate e lei rimaneva nella penombra, seduta sulla poltroncina, con la testa appoggiata ad una mano, gli occhi ciechi chiusi. Nulla poteva più smuoverla dal torpore grigio in cui era sprofondata. Era diventata davvero una bambola.

Poi, un giorno, la sua sedia fu trovata vuota.
La gente sconvolta iniziò a cercarla per tutto il regno, senza risultati: si pensò a un rapimento, ma non venne mai chiesto un riscatto. Il mistero rimase tale per sempre, perché dopo qualche settimana fu imposto a tutti di non parlarne più, per non svegliare il dolore della regina. Nessuno pronunciò mai più il nome della principessa, così semplice e luminoso.
Ma Eva non era scomparsa nel nulla.
La regina, durante la notte, l’aveva presa in braccio, portandola via dal letto in cui giaceva addormentata, avvolta in una coperta. L’aveva accarezzata piano, osservando la creatura che tanto amava e che era così lontana da lei, col cuore e con la mente. Dopodichė, l’aveva caricata su un carro di mele profumate che l’attendeva fuori dalle cinta del castello.
Con un sospiro l’aveva lasciata andare, sapendo che stava andando in un luogo che odorava di cucina, senza tende e pieno di musica.
La regina non ebbe altri figli. Prima di morire, anziana e scorbutica, chiese solo di essere sepolta in un campo. Dopo il funerale, quando anche l’ultimo dignitario se ne fu andato, quattro figure silenziose si avvicinarono, ognuna con un fiore in mano.
Un uomo e una donna, alti e robusti, avanzavano vicini vicini, come se fossero una cosa sola. Dietro a loro c’era un ragazzino dall’aria furba e una donna minuta. Il ragazzino guidava la donna con delicatezza, tenendola per le spalle. Giunti sulla semplice tomba, la donna, con un sorriso appena accennato, appoggiò il proprio fiore sulla terra, allungò una mano e fece una carezza nell’aria.
Poi tutti e quattro si allontanarono da lì, con il cuore tranquillo e un buon profumo di mele addosso.

Lettera aperta al ciclista di strada

Caro ciclista,
è da molto tempo che desidero scriverti questa letterina.
Ogni tanto, chiusa in macchina con la musica a palla, incerta se meditare sul destino del globo terracqueo o su cosa preparare per cena, vengo fulminata da codesti pensieri.
A te che mi sfrecci davanti, mi sorpassi da destra e da sinistra, che mi sfiori con coraggio la portiera e lo specchietto, magari urlando qualcosa di poco carino. A te, che magari sei anche caruccio, nel fiore degli anni, con i polpaccini lucidi e la tutina fluo.
Ti ammiro, davvero. Ci vuole coraggio per sfrecciare a folle velocità nel traffico, vestito come un giullare di corte, su due ruote che hanno lo spessore del mio dito mignolo. A te non fa paura nulla, impavido cavaliere: pedoni, semafori rossi, incroci, curve. La strada è il tuo regno, e tu la domini con sprezzo del pericolo. Se poi con te ci sono altri allegri compagni di merende, l’effetto è garantito: una carovana compatta di atleti che sinuosa si sposta su e giù dai passi, belli e splendenti, mens sana in corpore sano, e pazienza se ogni tanto uno di voi sputacchia o snaricchia poco elegantemente sul mio parabrezza.
Caro ciclista, sappi quindi che ti ammiro, nonostante tutto.

Peròporcadiquellavacca.
Non sei invincibile. Non sei invulnerabile. E, mi spiace sottolinearlo, non sei Gesù Cristo. Non hai il bonus vita come Mario Bros. Se ti schianti, ti fai male. Molto male. E chi ti incontra/scontra si spaventa assai.
Io il mio metro e mezzo di distanza lo tengo eccome, caro ciclista, perché ho a cuore la tua e la mia vita, sai, mio piccolo pazzoide di nylon vestito. Tu cerca di raffreddare i bollenti spiriti, ripassati il codice della strada e continua a pedalare sereno. Hai tutto il terreno che vuoi sotto e davanti a te, vedi di non mettercelo SOPRA.
Con affetto e ammirazione (no, simpatia no, ma ammirazione sì),

Alice.

Attendere il segnale.

Sarà la notte, lunga lunga e pure un po’ fredda.

Sarà l’insonnia, i pensieri densi, le tonnellate di ore lente. Sarà il silenzio del rispetto del riposo altrui.

Tutte queste cose insieme si coalizzano, come una cospirazione o un incastro, per farti scrivere. Eccone i risultati.

Quello che segue l’ho scritto durante le notti di attesa sfiancante del mio secondogenito. Chiunque abbia provato l’esperienza dell’attesa di qualcosa di bello e terrificante allo stesso tempo, sa cosa passava per la mia (già non molto equilibrata) testa.

E infatti.

A tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, si ritrovano ad aspettare.
Aspettare qualcuno, qualcosa, un evento, una notizia, un referto, una telefonata, una notizia buona o una terribile, un passaggio per andare da qualche altra parte, il momento che segna il prima e il dopo.
A tutti quelli che attendono, magari di notte, con il buio dentro e fuori, le ore che sgocciolano piano con l’ansia che sale e lo sclero che monta come la panna.

Vi dò un consiglio, di cuore, seriamente.

Lasciate perdere Google.

Google è il male. È la droga che ti fa viaggiare fra racconti dell’orrore e ti apre scenari che nemmeno le tue peggiori fantasie potevano creare.
È così facile cascarci.
Digiti veloce sullo schermo, che so, per dirne una a caso, “gravidanza oltre il termine”.
Bene, da lì in poi, è una discesa verso la depressione più nera, che poi hai bisogno di secchiate di Fiori di Bach per poter anche solo PENSARE di poter sopravvivere ad un ipotetico parto indotto. Passi frenetica da un link all’altro, saltando dai racconti pulp (Tarantino levati proprio) ai consigli di Nonna Papera, cercando qualcosa che neanche tu sai, una consolazione, un consiglio, un miracolo.

Ora, la mia situazione non è così drammatica, anzi, oramai cerco di prenderla con filosofia. Aspetto, mi rassegno, mi incazzo, poi spengo internet e via.
Ma stanotte sono per un attimo uscita dal mio personale tunnel di paranoie e ho pensato a chi è malato, a chi aspetta o è costretto ad aspettare cose poco carine, e mi si è stretto il cuore.
Davvero.

Ogni tanto bisognerebbe davvero spegnere ‘sto perenne collegamento infinito con il mondo fuori, per ripigliarsi un attimo e respirare.
Parlare con qualcuno, che magari non ha le risposte a tutto, non ti consiglia e non ti racconta la sua storia. Semplicemente, ti ascolta. A volte basta.

Tra l’altro, per la prima volta nella mia vita, sono riuscita a completare un Bartezzaghi, senza trucchi né ricerche esterne.
Sono soddisfazioni, queste.

Dio benedica la Settimana Enigmistica.

Giulietta e Romeo qua-qua. Come l’amore ti rende incosciente.

Camminando lungo il fiume si possono fare molti incontri. Capita di incontrare pure una distinta coppia di anatre, che ne approfitta dell’aria frizzante per nuotare. Li ho osservati per un bel po’, e mi sono immaginata quello che si dicevano.

LEI: Ma cosa ci sarà mai venuto in mente. Pazzi, siamo pazzi.
LUI: Cara, non ti agitare, poi sudi e ti si arruffano le piume.
LEI: Siamo rimasti solo noi due. Sai cosa me ne importa delle piume. E poi sono talmente ghiacciata che non mi si arruffa più niente.
LUI: Sei splendida comunque, tesoro. Ed è fantastico essere qui con te.
LEI: No, non hai capito. Cocco, siamo rimasti soli. Gli altri se ne sono andati, volati, migrati verso posti più caldi, ciao e grazie, chissenefrega, la natura chiama, e se chiama quella tu non puoi esitare, tentennare, fare l’alternativo. L’avevano detto tutti che era un’idea stupida, che nessuno l’aveva mai avuta. Pazzi.
LUI:A me sembra un bel modo alternativo per passare l’inverno.
LEI: Qui non passiamo l’inverno. Qui ci rimaniamo secchi. Che cretina che sono stata. Pensavo davvero che il freddo non sarebbe stato così freddo, che se ce la facevano quegli stupidi passerotti insulsi e quei gradassi di corvi ce l’avremmo fatta pure noi. Mi dispiace, mi dispiace. È colpa mia, è stata una mia idea.
LUI: Sentimi, ora basta. Tutte le mattine e tutte le notti la stessa storia. Adesso smetti di nuotare in tondo e mi ascolti.
Dove sei tu, ci sono io. Anche se siamo nel fiume più freddo che conosca, nell’ansa più lontana, fra le frosche più spoglie. L’ho promesso quando il mondo non era così freddo, tutto era dorato, caldo, semplice. Ora, io non mi rimangio nulla. Perché magari la primavera non la vediamo, magari è stato davvero un grosso errore. Ma vuoi mettere essere gli unici due germani che nuotano in questo fiume a gennaio?
LEI: Sai sempre come tirarmi su il morale, caro.
LUI: Pettinati le piume, cara, e nuota bella dritta. C’è una di quelle pazze con il cane e il cellulare che ci sta scattando una foto.

Ora, io non so se sono davvero gli unici due esemplari di anatre che se la nuotano in questo periodo.
Ma spero tanto che ci arrivino, alla primavera. Così, per simpatia.

Piccola storia fredda. Ovvero: sul lasciarsi andare e trasformarsi in altro.

C’era una volta una piccola goccia che se ne stava in una pozza tranquilla, dove non accadeva mai nulla. C’era solo il vento che faceva il solletico, increspando la superficie. La piccola goccia si confondeva con le altre, era paurosa e timida e si nascondeva nel fango morbido, così non le era mai capitato di lasciare il suo piccolo mondo. Trascorreva le giornate così, umide e sempre uguali, finché un giorno le cose iniziarono a cambiare intorno a lei. Tutto era più rigido, freddo, il sole non scaldava più come prima e nuotare era diventato faticoso. Si sentiva come nella marmellata (non che sapesse cosa fosse la marmellata, ovviamente, ma era per rendere l’idea). “Cosa succede?” iniziò a chiedere spaventata, ma nessuno intorno a lei pareva farci caso, finché sentì una risata tintillante proveniente dall’orlo della pozza. La piccola goccia alzò lo sguardo e vide tanti piccoli cristalli scintillanti che le ammiccavano.

“Non temere, sciocchina”, dissero in coro. “È arrivato l’inverno, e ci stiamo trasformando. È normale, è giusto. Accadrà anche a te.” La piccola goccia si mise a piangere disperata. “Non voglio, non voglio, non voglio” continuava a singhiozzare. I cristalli luccicarono ancora più intensamente. “Piccola goccia, puoi continuare a nasconderti, ma il gelo ti troverà comunque e ti bloccherà per lunghi mesi. Se rimani in superficie, invece, risplenderai in un mondo magico. Fidati.”
La gocciolina sconsolata si appoggiò allora sull’orlo gelido della pozza, giusto per riposarsi un pochino. E in quel momento lo vide, vide tutto il mondo ghiacciato che la circondava, con colline, increspature, spuntoni, pizzi e merletti meravigliosi che si affollavano tutto intorno. Senza parole dalla meraviglia, la goccia rimase immobile per molto tempo, così che il freddo poté finalmente accarezzarla con le sue lunghe dita. Subito sentì il cambiamento, lo avvertì fin dentro al cuore, ed infine si vide per la prima volta, una sfera perfetta appoggiata alla pietra. Era Lei, ed era bellissima.
Rimase così per lunghi mesi, ad osservare il mondo di ghiaccio dalla sua pozza. Poi, a un certo punto, tornò la primavera, l’umidità, il fango, ma lei non si nascose più.

Era una goccia d’acqua, e nulla poteva fermarla.